Nell’immaginario collettivo i veleni evocano per lo più visioni di morte, vendette, tradimenti, intrighi politici e amorosi; le tecniche di avvelenamento sono un’arte in cui la chimica degli elementi, la fisiologia del corpo e l’omertà, s’intrecciano seguendo le logiche corrotte del potere.

Rappresentanti emblematici di questa scienza funesta sono le grandi avvelenatrici della storia, come Locusta, Agrippina, Cleopatra, Caterina de' Medici, Lucrezia Borgia, Madame de Montespan, Margherita d’Aubray: protagoniste femminili, le cui opere delittuose trovano scenari ideali nelle camere da letto, tra calici di vino e abbracci focosi o nelle cucine, tra elaborate pietanze e sapori raffinati. Minerali, metalli, frutti, semi, foglie, ghiandole, essudati, secrezioni sono le materie prime offerte dalla Natura che, sapientemente lavorate e dosate, esplicano la loro funzione in maniera discreta, simulando una morte naturale che può giungere in maniera fulminea oppure lentamente consumando il corpo come una malattia. Nonostante i tormenti e le sofferenze inflitte, i veleni hanno svolto un ruolo cruciale nella storia della medicina, e ancora oggi sono impiegati, a dosaggi controllati, nel trattamento di numerose patologie o nella preparazione di specifici antidoti. Già gli antichi riconoscevano nel pharmakon la doppia natura di “cura” e di “veleno”, e applicando il detto secondo il quale “non esiste nessun male da cui non derivi qualcosa di buono”, attribuivano a molte sostanze velenose sia proprietà tossiche che curative.

Con l’avvento della tecnologia la “scienza dei veleni” di stampo artigianale ha ceduto il passo alla chimica di sintesi e alle ricerche di laboratorio: macerazioni, estrazioni e calcinazioni rimangono solo un lontano ricordo. A questo proposito il regno vegetale rappresenta una delle principali fonti di approvvigionamento di sostanze velenose a scopo medicinale. Dal fitocomplesso ricavato dalla Digitale (Digitalis spp.), ad esempio, si ottiene la digitossina impiegata come cardiotonico (cardioattivi simili sono presenti in diverse famiglie tra cui Scrophulariaceae, Apocinaceae, Asclepiadaceae, Celastraceae, Tilaceae); dalla Pervinca (Vinca spp.) si ricava la vincamina, un’alcaloide ad azione vasodilatatoria; dal Colchico (Colchicum spp.) si estrae la colchicina utile nella cura della gotta e di alcune forme di epatiti croniche; da alcune specie appartenenti alla famiglia delle Solanaceae si ottengono degli alcaloidi di tipo tropanico con proprietà analgesiche, antispasmodiche, midriatiche e antimuscariniche. Anche numerosi animali si prestano a fornire sostanze utili alla medicina: serpenti, scorpioni, lucertole e sanguisughe sono solo alcune delle numerose possibilità del vasto campionario offerto dalla natura.

Dal veleno del Rhopalurus Junceus, uno scorpione endemico dell’Isola di Cuba, si ricava un rimedio che la medicina tradizionale utilizza da oltre due secoli come antinfiammatorio, antipiretico, immunostimolante e antidolorifico; da qualche decennio lo stesso preparato, chiamato Escozul, trova impiego anche come antitumorale (la medicina ufficiale è abbastanza scettica a tale proposito). Dalla Cantaride o Mosca di Spagna (Lytta vescicatoria L.), un coleottero appartenente alla famiglia delle Meloideae, si ricava la cantaridina: questa sostanza esercita un’azione rubefacente e vescicatoria ed è stata impiegata, in passato, nella preparazione di tinture, pomate e oli per uso topico. Per via orale esercita un’azione diuretica e soprattutto afrodisiaca (tale effetto è causato dall’azione irritante esercitata sull’apparato uro-genitale). I sintomi dell’avvelenamento da cantaridina sono caratterizzati da nausea, vomito, dolori addominali, priapismo spasmodico e convulsioni.

Promettenti in questo campo sono gli studi effettuati su rettili, anfibi e pesci. Su quest’ultimi animali, ad esempio, si è concentrata l’attenzione di biologi e antropologi, i quali hanno analizzato, tra le tante sostanze prese in esame, un composto chiamato tetrodotossina, la cui massima concentrazione, influenzata da oscillazioni stagionali, è rintracciabile nella pelle, nell’apparato intestinale e nelle ovaie di alcune specie di pesci palla appartenenti, principalmente, ai generi Tetrodon, Fugu e Chelonodon. Tale sostanza costituisce l’ingrediente fondamentale della cosiddetta “droga degli Zombie” impiegata nelle cerimonie Woodoo, la cui ingestione provoca uno stato di morte apparente. Le vittime sono consapevoli delle drammatiche fasi del loro funerale, seppellimento e successivo dissotterramento (un tragico rito iniziatico). Riportati in vita tramite una mistura a base di erbe (tra gli ingredienti figura anche Datura stramonium L.) continuano a vivere in uno stato di completa soggiogazione e molti di loro vengono impiegati come schiavi nelle coltivazioni di canna da zucchero.

Con il mutare degli equilibri politici mondiali e la riduzione dei fondi destinati alla ricerca, molti veleni sono stati trasferiti dai laboratori medici a quelli militari. Un esempio è rappresentato dalla saxitossina e la palitossina, ricavati, rispettivamente, da un raro protozoo marino che vive nelle acque gelide dell’Alaska e da una microscopica alga endemica delle isole Hawaii: due sostanze tossiche letali impiegate dalla CIA con finalità scarsamente filantropiche. Ma se da una parte non esistono dubbi sull’azione farmacologica di un principio attivo, somministrato nelle giuste proporzioni o sui suoi possibili effetti dannosi a dosaggi elevati, dall’altra parte quando si parla di un eventuale effetto terapeutico di una sostanza in quantità infinitesimali, la medicina allopatica (cristallizzata in una rigida visione fenomenica e somatica della malattia) entra in aperto contrasto con quella omeopatica (paladina di una visione olistica dell’uomo).

Il punto focale delle polemiche che ruotano intorno all’efficacia dei rimedi omeopatici, riguarda, ovviamente, la completa assenza di molecole attive dal punto di vista farmacologico. La medicina allopatica difende questo dogma incrollabile mantenendo come parametro di valutazione la cosiddetta legge di Avogadro (nome del chimico italiano che l’ha enunciata per la prima volta nel 1811) in base alla quale viene definito il concetto di grammomolecola o mole, che corrisponde a un numero di grammi uguale al peso molecolare di una sostanza: questo numero, uguale per la mole di qualsiasi materia, si chiama numero di Avogadro e segna il confine tra l’azione farmacologia ponderabile di un principio attivo e la sua completa innocuità. Le trasformazioni che vengono operate al di là di questo confine sfuggono alle tradizionali indagini scientifiche, essendo esclusivamente di natura biofisica; sulla base di questi presupposti, ricerche sperimentali nell’ambito dell’elettromagnetismo, della fisica quantistica e della scienza del caos hanno rimesso in discussione i principi fondamentali della biologia e della medicina.

Anche il concetto di salute e di cura offrono dei diversi spunti di riflessione e stimolanti modelli interpretativi, se vengono affrontati seconda una logica multidisciplinare in base ai principi dell’ecologia, dell’etnomedicina, della psicologia del profondo e della spiritualità. Siamo comunque lontani dalla comprensione che un atto terapeutico, oltre a ripristinare uno stato di salute, può essere promotore, attraverso la guarigione, di un processo di crescita personale che abbraccia sia la dimensione materiale che quella spirituale. La malattia, quindi, è la manifestazione di un disagio più profondo e l’intervento (o meglio la partecipazione) del medico dovrebbe concretarsi, prima di tutto, in un atto d’iniziazione (parlare in ambito medico di esperienze di tipo spirituale o sciamanico è un sacrilegio!), nel senso di “avviare” il malato verso la gioia e il significato della vita (a questo proposito sorge spontanea una domanda: quanto è utile, in termini di crescita personale, il malato per il medico e viceversa?).

Ma al di là di queste brevi considerazioni, rimane insoluta la problematica relativa alla genesi dei veleni, soprattutto per quanto riguarda quelli di natura vegetale; a tale proposito le opinioni degli studiosi sulle reali funzioni di queste particolari sostanze sono varie e controverse. I biologi offrono una giustificazione apparentemente inoppugnabile: la lotta per la sopravvivenza si avvale di meccanismi di offesa e di difesa nei quali la tossicità riveste un ruolo preminente. Tuttavia, questa visione non spiega il comportamento alimentare di molti predatori, quali insetti, lumache, bruchi, uccelli, capre, maiali e cavalli, che spesso, per strane alchimie metaboliche, si cibano impunemente di piante velenose. Del resto molti tessuti e organi vegetali risultano già inattaccabili o poco appetibili essendo di natura dura, coriacea, a volte spinosa; senza dimenticare che il mondo vegetale è ricco di specifiche fitotossine sufficienti a garantire un’adeguata protezione. Un’altra ipotesi attendibile, ma non esaustiva del problema, considera le sostanze velenose dei sottoprodotti protoplasmatici di natura irreversibile (residui metabolici) destinati ad essere eliminati.

Tra le numerose famiglie che annoverano piante tossiche, un ruolo di spicco nel panorama botanico spetta alle Solanaceae: ad essa appartengono vegetali che, oltre a possedere marcate marcate proprietà farmacologiche, si rivelano di grande utilità alimentare. Basti pensare alla Patata (Solanum tuberosum L.), alla Melanzana (Solanum melongena L.), al Pomodoro (Lycopersicon esculentum Miller), al Peperone (Capsicum annuum L.) e al Tabacco (Nicotiana tabacum L.). Alcune specie presentano appellativi che evocano antiche credenze o usi pratici, come Atropa belladonna L. il cui nome trae ispirazione da Atropa, una delle tre Parche della mitologia greca incaricata di recidere il filo della vita, mentre il termine “Belladonna” è riconducibile all’impiego, in antichità, di un collirio ricavato da questo vegetale, il quale, per effetto midriatico, conferiva bellezza e fascino allo sguardo femminile.

La Belladonna cresce in ambienti boschivi montani e condivide le medesime esigenze ecologiche della Mandragora, in particolare della Mandragora officinarum L. (al contrario della Mandragora autumnalis Bertol. la quale preferisce campi e terreni incolti aridi), mentre il Giusquiamo bianco (Hyosciamus albus L.), il Giusquiamo nero (Hyosciamus niger L.) e lo Stramonio (Datura stramonium L.) sono reperibili in ambienti ruderali, macereti e vecchi muri. Queste Solanaceae sono conosciute con l’antico appellativo di “erbe consolatrici” poiché contengono alcaloidi con effetti psicotropi, tra cui atropina, scopolamina, iosciamina e mandragorina (rintracciabile solo nella Mandragora).

Continua il 4 Gennaio 2016...

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