Da sempre l’uomo, nell’instancabile lotta per la sopravvivenza, ha trovato nella Natura un valido ausilio per la soluzione dei suoi problemi. La biodiversità di un territorio rappresenta una grande risorsa nutrizionale, medicinale e culturale. Il riconoscimento del potere curativo delle piante è il risultato di un empirismo maturato nel corso di migliaia di anni ad opera di gruppi umani originali, portatori di conoscenze e saperi tradizionali. Tale patrimonio culturale è stato costruito in maniera diretta, valutando gli effetti immediati, come nel caso di piante velenose o particolarmente attive dal punto di vista psicotropo, oppure per affinata sensibilità o per processi di analogia con piante già conosciute, sfruttando i caratteri morfologici (“teoria delle signature”), l’odore, il sapore, i simboli e i miti.

Ancora oggi nella foresta tropicale le popolazioni locali conoscono e utilizzano circa 2000 erbe medicinali, molte delle quali non sono state classificate né studiate in maniera accurata dal punto di vista biochimico. La garanzia del valore terapeutico di un preparato è assicurata da numerosi fattori tra i quali il più importante è il corretto dosaggio dei suoi componenti: una quantità troppa bassa può vanificarne l’azione curativa, mentre in eccesso può causare gravi effetti collaterali. Già gli antichi riconoscevano nel pharmakon la doppia natura di “cura” e di “veleno” e applicando il detto secondo il quale “non esiste nessun male da cui non derivi qualcosa di buono”, attribuivano a molti vegetali sia proprietà tossiche sia medicinali.

La moderna farmacologia ha confermato l’uso terapeutico di molte piante velenose; ad esempio la Digitale (Digitalis sp.) è ricca di glicosidi che in dosaggi ridotti possono svolgere un’importante azione cardioregolatrice, al contrario sono sufficienti 40 gr. di foglie fresche di questa pianta per causare la morte di una persona adulta. Il Tasso (Taxus baccata) contiene sostanze ad azione antitumorale, mentre pochi semi ingeriti possono risultare letali per un bambino. Alcuni frammenti di foglie di Datura (Datura stramonium), fumate sotto di forma di sigarette, rappresentano un ottimo rimedio per contrastare le crisi di asma, mentre gli stessi principi attivi, in quantità più elevata, causano gravi forme di avvelenamento con danni irreversibili a livello cerebrale. La Belladonna (Atropa belladonna) contiene atropina, un composto utile per la sua azione parasimpatolitica che trova impiego in medicina e in veterinaria, in particolare come antisecretorio, sedativo, antispamodico, e in oculistica come midriatico (favorisce la dilatazione della pupilla); ma già 4-5 bacche di questa pianta rappresentano una dose mortale.

Se non esistono dubbi sull’azione farmacologica di un principio attivo somministrato nelle giuste proporzioni o sui suoi possibili effetti dannosi a dosaggi eccessivi, le problematiche relative al suo eventuale effetto terapeutico, anche in “piccolissime quantità”, hanno acceso delle aspre polemiche tra la medicina ufficiale e la cosiddetta medicina alternativa o di “frontiera” come viene definita dagli addetti ai lavori. Oggi, ad esempio, si discute molto sulla scientificità dell’omeopatia come disciplina medica e di conseguenza sull’efficacia dei suoi rimedi, che contemplano anche l’impiego di numerose sostanze velenose di origine minerale, vegetale e animale. Sulle etichette di alcuni prodotti omeopatici, infatti, si leggono nomi suggestivi come Belladonna (Atropa belladonna), Apis (veleno di ape), Tarentula cubensis (dall’omonimo ragno), Antimonium crudum (solfuro di antimonio), Cantharis (polvere di Cantaride), Mercurius solubilis (mercurio solubile), Vipera (veleno di Vipera berus), Sepia (inchiostro di Seppia), ecc.

L’attività farmacologica di una molecola è strettamente correlata alla possibilità di poterla quantificare secondo degli specifici parametri. Uno di questi, il cosiddetto numero di Avogadro, rappresenta il numero di molecole presenti in una grammomolecola di sostanza, equivalente a 6,02 × 1023 (esattamente 602 seguito da 21 zeri, cioè 602 sestilioni di molecole!) il quale stabilisce il confine tra la quantità minima di sostanza ancora misurabile, e l’assenza totale della stessa che vanificherebbe ogni sua possibile azione biologicamente rilevabile.

Mentre la fitoterapia tradizionale e moderna impiega rimedi contenenti principi attivi in quantità apprezzabili, secondo i canoni classici della biochimica, l’omeopatia si muove in opposte direzioni. La farmacologia ufficiale esclude, categoricamente, ogni effetto terapeutico in assenza di molecole del medicamento stesso. Di conseguenza la medicina allopatica non accetta, neanche sul piano delle ipotesi, la possibile azione farmacologica delle dosi ultra-basse omeopatiche (meglio definite “alte diluizioni o “alte potenze”): infatti, secondo i tradizionali strumenti di analisi, già una diluizione alla 12 CH (il “C” sta per “centesimale”, mentre l’“H” indica l’iniziale di Hahnemann (1755-1843), il medico tedesco che ha propugnato e ufficializzato l’omeopatia) supera il già citato numero di Avogadro e di conseguenza non contiene alcuna molecola di preparato originale. Ed è altrettanto incomprensibile, secondo le attuali conoscenze mediche, il cosiddetto “principio di similitudine” (“Similia similibus curantur”: il simile si cura con il simile) o il processo di “dinamizzazione” che sono rispettivamente il fondamento teorico dell’omeopatia e il passaggio più importante nella preparazione dei suoi rimedi.

D’altra parte, in contrapposizione al paradigma biochimico convenzionale, numerose ricerche sperimentali sembrano giustificare le proprietà curative delle alte diluizioni, offrendo degli spunti molto interessanti per un'interpretazione olistica di questi fenomeni biologici. Il comportamento insolito di alcune sostanze (in particolare l’acqua) sembra seguire le leggi della biofisica e della “scienza della complessità”, facendo appello a influenze e meccanismi molecolari intriseci alla materia (campi elettromagnetici, radiazioni biofotoniche ultradeboli, fenomeni di oscillazione, di risonanza o di “sintonizzazione” ad opera di specifici “catalizzatori di ordine”, ecc.).

Tra i numerosi ricercatori che hanno contribuito ad ampliare le conoscenze in questo settore si possono menzionare Jacques Benveniste, Giuliano Preparata, Emilio Del Giudice, Alberto Tedeschi, Giuseppe Vitiello, Masaru Emoto, Paolo Bellavite, Andrea Signorini, senza dimenticare i recenti lavori di Luc Montagnier, premio Nobel per la Medicina nel 2008, dedicati alle speciali “memorie” manifestate da alcune soluzioni acquose altamente diluite, venute a contatto con i segnali elettromagnetici di bassa frequenza emessi dal Dna umano. Nei suoi studi pioneristici, per conto del Ministero della Sanità tedesco, Albert Popp ha dimostrato che in specifiche colture cellulari messe a contatto con diluizioni omeopatiche, si verificano delle interessanti reazioni a livello genetico, caratterizzate da improvvise emissione biofotoniche ultradeboli (siamo nel misterioso e affascinate mondo della fisica quantistica). Dello stesso avviso è anche H. Wagner, il quale, analizzando le risposte immunologiche di alcuni soggetti, ha potuto verificare che alcune sostanze impiegate ai normali dosaggi previsti dalle terapie oncologiche (ad es. colchicina, vincristina, ciclofosfamide, metotrexato e azatioprina) agiscono come immunosoppressori, mentre se somministrate in alte diluizioni si rivelano, sorprendentemente, degli ottimi immunostimolanti.

Queste osservazioni sembrano convalidare l’ipotesi di un possibile flusso d’informazioni, non di natura chimica, tra sistemi dinamici complessi: una specie d’«impronta» o di «memoria» al di fuori dei comuni parametri descrittivi della materia.

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