La ricerca dell’immortalità e con essa la possibilità di conservare l’eterna giovinezza, ha rappresentato, da sempre, un antidoto all’inevitabilità della morte.

Tra gli eroi di questa impresa un posto d’onore è riservato al re sumero Gilgamesh: la sua storia è stata scritta 4500 anni fa su delle tavolette di argilla per tramandare ai posteri la memoria di un viaggio iniziatico nelle viscere della terra, un cammino di autodeterminazione, inteso a spezzare i limiti imposti dalla materia e a guadagnare, con il favore degli dei, la vita eterna. Allo stesso modo, nell’antico Egitto, i rituali funebri e le pratiche di mummificazione, nell’ottica del raggiungimento di una vita felice nell’aldilà, erano improntati al perfezionamento e all’incorruttibilità del corpo.

Non è un caso che l’Alchimia affondi le sue radici proprio nella terra dei faraoni: il nome di questa scienza deriva dall’arabo al-kimya, a sua volta legato alla parola egizia kême, nel significato sia di “terra nera” (appellativo riferito all’Egitto) sia di “materia prima” (lo spirito o la sostanza universale degli alchimisti). Tra le varie forme di conoscenza, l’Alchimia è stata senza dubbio quella che ha influenzato maggiormente l’umanità, in tutte le culture del mondo, infatti, ritroviamo simboli e obiettivi comuni che riguardano questa antica tradizione. Nel portare a compimento la “Grande opera”, gli alchimisti operavano contemporaneamente sia a livello materiale che spirituale: l’immortalità del corpo era il segno tangibile dell’avvenuta fusione di queste due dimensioni apparentemente inconciliabili.

Ancora oggi, in India, questa “arte regale” è legata a una vasta gamma di strumenti operativi utili a ripristinare e conservare un sano equilibrio psicosomatico. Nell’antica scienza ayurvedica, le cui origini risalgono a oltre 5000 anni fa, troviamo numerosi rimedi (rasayana) con effetti rigeneranti, ottenuti da minerali, metalli e piante, spesso trattati secondo i principi dell’alchimia. Tali prescrizioni generalmente sono affiancate a pratiche di purificazione e disintossicazione (panchakarma) dell’organismo per consentire a ciascun individuo di vivere in perfetta salute. Anche la tradizione dello Yoga, offre delle soluzioni complete e funzionali atte a contrastare i processi degenerativi di organi e tessuti: si tratta di modelli posturali e respiratori, capaci di apportare delle modificazioni utili alla ri-strutturazione sia dello schema corporeo sia della sottile componente energetica che sovrintende alla funzionalità dell’organismo.

In tema di lotta all’invecchiamento, realtà e leggenda si fondono insieme; basti pensare alla moltitudine di rituali, ricette, rimedi ed “elisir di lunga vita” che vengono tramandati da una generazione all’altra. Ad esempio, un appuntamento carico di simboli ed emozioni era il solstizio d’estate, in occasione del quale si raccoglieva la “guazza del santo”, cioè la rugiada che si formava nella prima ora del mattino del 24 giugno, dopo i festeggiamenti per la notte dedicata a San Giovanni Battista. Tale rimedio veniva impiegato come tonico e rivitalizzante, per donare potenza e fecondità (applicata sulle parti intime), come strumento per officiare riti di purificazione ed esorcismi o per impastare alcuni tipi di pane da consumare in ricorrenze speciali. Anche le fonti e le sorgenti sacre, localizzate in grotte profonde (simbolo del grembo materno), in foreste remote, spesso alla base di grandi alberi (axis mundi), erano apportatrici di virtù rigeneranti; non è un caso che il termine “fonte” (nel significato di matrice, origine) sia legato alla radice sanscrita dhanvati, che designa tutto ciò che scorre, compreso il fluire del tempo.

Nelle pratiche religiose vediche viene utilizzato il “soma”, una bevanda sacra, presumibilmente di natura vegetale (ottenuta da una pianta o da un fungo), capace di infondere una miracolosa vitalità; questa è la descrizione che ne viene fatta in un antico testo risalente al 1200 a.C. (RgVeda VIII, 46): “abbiamo bevuto il soma, siamo diventati immortali, giunti alla luce, abbiamo trovato gli dei. Chi può nuocerci oramai, quale pericolo può raggiungerci, o Soma immortale (...) Bevanda che è penetrata nelle nostre anime, immortale in noi mortali”.

Tra i liquidi del corpo è il sangue che acquista un valore fondante per conservare la salute e favorire la longevità. Esso rappresenta il filo rosso che lega la vita alla morte, specialmente quando sancisce alleanze, amicizie e matrimoni oppure nei casi in cui viene donato, sparso come tributo alla violenza e al dominio o impiegato per siglare patti di natura esoterica (basti pensare al mito di Faust e al ritratto di Dorian Gray). In ambito medico era molto diffuso l’impiego del “salasso”, applicato su varie parti del corpo, come strumento di purificazione e di riequilibrio dei vari “umori”; dall’antichità fino a un passato non molto lontano, sacerdoti, monaci, barbieri, cerusici, chirurghi, hanno sottratto sangue a questo scopo (flebotomia) con l’ausilio di sanguisughe, bisturi o altri strumenti.

Per accrescere la propria forza vitale era usanza bere il sangue prelevato da animali (soprattutto tori) o da uomini dotati di particolare vigore fisico (nell’antica Roma era molto richiesto il sangue dei gladiatori morenti). Sulla scia del leggendario Dracula (protagonista del romanzo di Bram Stoker) alcuni biologi americani hanno dimostrato che il sangue prelevato da ratti giovani e inoculato in esemplari anziani stimola in quest’ultimi evidenti segni di reattività muscolare e rigenerazione dei tessuti. Il merito di questo prodigio è da attribuire a una piccola proteina, la cui sintesi rallenta con l’avanzare dell’età; tale composto, identificato con la sigla GDF11, è responsabile dell’attivazione di alcune cellule staminali che normalmente risultano dormienti (ora si cercano conferme dell’esistenza degli stessi meccanismi biochimici anche nell’uomo). Anche il liquido seminale era oggetto di grande apprezzamento per le sue presunte proprietà stimolanti e rigeneranti. In antichità era considerato una forma di sangue purificato e la cosiddetta “semeterapia o spermiofagia” prevedeva il regolare consumo di sperma di provenienza sia umana (prelevato da uomini considerati particolarmente dotati) che animale (era molto richiesto quello prelevato dai tori).

Conferme sulle potenzialità nutrizionali di questa pratica arrivano dalle moderne tecniche di analisi che hanno permesso di evidenziare la presenza di numerose sostanze organiche, tra cui colesterolo, colina, creatina, acido ascorbico (vitamina C), vitamina B12, glutatione, inositolo, pirimidina, acido piruvico, urea, calcio, fruttosio, acido lattico, magnesio, azoto, fosforo, zinco. Questo piccolo scrigno di risorse vanta anche delle inaspettate proprietà ormonali, dovute a piccole percentuali di cortisolo, testosterone, vari estrogeni e ossitocina, insieme a concentrazioni apprezzabili di tireotropina, serotonina e melatonina (questi ormoni sono dei naturali induttori del sonno e hanno effetti positivi sulla depressione femminile). Sempre a proposito di sperma, l’attenzione dei ricercatori è ora focalizzata su un composto di natura enzimatica, chiamato spermidina, capace di inibire i processi di invecchiamento, poiché svolge un’efficace azione antiossidante, stimola le difese immunitarie e la durata di vita dei globuli rossi.

Ricerche in questa direzione, condotte su alcune donne, hanno dimostrato che l’ingestione dello sperma del proprio partner possa veicolare, in caso di concepimento, specifici antigeni utili per una risposta immunitaria positiva, in termini di ricettività nei confronti del feto.