Ho sempre amato viaggiare. Da buona figlia di ferroviere, ho scorrazzato in treno lungo tutto stivale e oltralpe per buona parte della mia infanzia e tra le cose che ricordo meglio, ci sono (nell’ordine): i panini con la frittata di mia mamma (che puntualmente gustavo non appena il treno lasciava la stazione da cui partivamo), l’emozione di dormire sulla cuccetta più alta che diventava la piattaforma di un’astronave su cui mi inerpicavo avventurosa e compivo viaggi e gesta mirabolanti, le chiacchiere con i compagni di scompartimento nonché l’emozione di immaginarne i volti e le storie prima che entrassero e l’alternarsi di paesaggi diversissimi che correvano fuori dal finestrino.

Direi che cibo, accoglienza e incontri con vissuti, storie e panorami nuovi, erano gli ingredienti base che rendevano la mia esperienza di viaggio emozionante e degna d’essere ricordata. Oggi che mi occupo di coaching e di percorsi di crescita personale, ho ripreso in mano il significato che per me ha sempre avuto il viaggiare, per progettare viandanze.

Di che si tratta? Di esperienze di coaching in viaggio a cavallo tra la scoperta di un luogo con gli occhi di chi lo vive e i sapori che lo abitano, e momenti di benessere legati proprio alla dimensione del viaggio, oltre che ad attività meditative. In poche parole si tratta di un modo di fare del viaggio stesso e dei molti ingredienti che offre, un’esperienza completa di coaching.

L’assunto da cui parto nel proporre queste esperienze, è l’idea che viaggiare insieme a sconosciuti rappresenti una importante fonte di benessere perché l’incontro con l’altro, l’aprirsi al diverso, ci rende più flessibili, aperti e disponibili. Molte delle nostre piccole o grandi afflizioni quotidiane, sono infatti legate alla nostra incapacità di accettare che le cose seguano un corso differente dalle nostre aspettative.

La gran parte delle persone che vengono da me in seduta lamentano infatti difficoltà personali legate alla loro incapacità di accettare le situazioni. Spesso non è l’evento in sé a rappresentare un problema ma l’atteggiamento con cui lo osservano a creare disagi e malessere.

Da questo punto di vista, la viandanza aiuta in due modi. In primo luogo invita a cambiare prospettiva sulle cose e a scoprire modi e mondi nuovi con cui relazionarsi. Uno spostamento fisico può sollecitarne uno interiore, invitando la persona a “muoversi” anche dentro di sé e a contattare parti ancora inespresse che possono trasformarsi in vere e proprie risorse personali utili per superare momenti di crisi e/o di difficoltà.

In secondo luogo, un’esperienza di viaggio che induca, come in questo caso, persone che non si sono mai incontrate prima a condividere anche la stessa stanza, rappresenta un’utile opportunità di conoscenza nella quale sperimentarsi più duttili e capaci di accogliere l’altro e quindi se stessi in un continuo entrare in confidenza e sperimentare la propria e l’altrui capacità di racconto.

Ma non finisce qua, perché nella viandanza un ruolo fondamentale lo giocano anche i luoghi e soprattutto le persone che li amano e li vivono. Nella mia idea di viaggio infatti, l’elemento benefico della relazione si estende anche a quella con il luogo e le storie che lo abitano. Viaggiare è un nutrimento per l’anima, è un incontro di culture e abitudini, è un entrare in contatto con modi diversi di vivere e di pensare, a volte anche di parlare, che sollecita la nostra apertura di mente e conseguentemente la nostra capacità di attivare risorse utili nel momento del bisogno.

Le persone che iniziano un percorso di coaching hanno spesso perso il contatto con alcune loro risorse e soffrono proprio perché, incapaci di appropriarsi in modo sano delle proprie capacità, vedono i problemi ma non intuiscono le opportunità che questi offrono. Il lavoro del coach è spesso un lavoro di cambio di prospettiva: si fa un tratto di strada con il cliente (metaforicamente e non nel mio caso) e si finisce con il guardare la stessa cosa con occhi nuovi, da punti di vista completamente differenti che si rivelano essere più efficaci perché in grado di trasformare il problema inziale in opportunità di crescita.

Ricordate la la parabola indù dei sei ciechi e un elefante? Ebbene, nella storia si racconta che un giorno fu condotto in città un pachiderma. I sei anziani non vedenti, desiderosi di conoscerlo, decisero di esplorarlo con il tatto. Ne nacque una accesa discussione sulla vera natura dell’elefante perché, a seconda di quale parte dell’animale questi toccassero, se ne facevano un’idea differente. C’era chi gridava che era una corda, chi giurava fosse un ventaglio, chi affermava senza alcun dubbio che fosse un albero. Ovviamente tutti avevano parzialmente ragione dal loro punto di vista ma nessuno era in grado di cogliere la realtà nel suo complesso e di avere una chiara visione dell’elefante.

Per noi nel quotidiano non è differente: ci aggiriamo con più o meno consapevolezza nel mondo e tentiamo di afferrarne brandelli che scambiamo per la realtà ultima delle cose. Spesso spendiamo un’esistenza intera, o gran parte di essa, a costruire meticolosamente un reticolo di storie a sostegno di quei piccoli brandelli di realtà che abbiamo solo vagamente intuito e difendiamo con ogni mezzo la nostra “idea di elefante”.

I disagi inziano quando l’intero impianto narrativo che abbiamo costruito attorno alla nostra idea di realtà, inzia a cozzare contro altri elementi di realtà che vengono a bussarci alla porta. Vuoi un esempio? Immaginiamo di aver passato una vita a raccontarci che quello era un albero perché afferravamo saldamente la zampa dell’elefante ma poi un giorno ne tocchiamo la proboscite o magarai le zanne e il racconto vacilla. A quel punto fondamentalmente possono accadere due cose. Possiamo sperticarci in tutta una serie di racconti accessori che giustifichino la copresenza di elementi tra loro discordanti effettuando tagli, censure e manipolazioni di varia natura. In questo caso va a finire che ci raccontiamo storie sempre più complicate e faticose da tenere in piedi ma salviamo l’idea dell’albero, cascasse il mondo.

Oppure possiamo arrederci. In questo caso facciamo cadere l’impianto narrativo (e l’albero) e ci assumiamo la responsabilità di cambiare storia, individuarne una capace di contenere questi due elementi, integrandoli, superando il conflitto accogliendo la diversità nel racconto, senza censurare le parti scomode ma anzi entrandoci in contatto. Come? Attraverso un paziente e non sempre semplice processo di cambiamento personale che può coinvolgerci a più livelli, a seconda dei casi.

Ecco, nel coaching spesso si lavora a questa seconda ipotesi, che ci richiede che dalla zampa si passi alla proboscite e poi magari all’orecchio dell’elefante, in un continuo spostamento di prospettiva che sia in grado di integrare dentro di noi quanto ci creava disagio, fintanto che la difficoltà sparisce e l’orizzonte si allarga mostrandoci un ampio ventaglio di possibilità che sono alla nostra portata.

Conoscere luoghi, tradizioni, culture, abitudini differenti dalle nostre e farlo spostandoci anche fisicamente, è senz’altro un valido allenamento che ci induce a cambiare prospettiva in modo naturale e spesso più divertente di una seduta di coaching, ottendo gli stessi benefici ma in un contesto rilassato e stimolante, a contatto con persone e situazioni nuove.

A tutti questi indiscutibili benefici si aggiungono quelli del passeggiare in natura, dell’entrare in relazione con l’ambiente che ci circonda, dell’allenarsi a una camminata lenta e consapevole così come quelli del meditare e dell’immergersi in una dimensione di ascolto interiore che fanno anch’essi parte della mia idea di viaggio ma di questo parleremo ancora, in altri articoli.

Se c’è una cosa che il viandare mi ha insegnato, è che non c’è fretta e che la vera meta è il viaggio stesso, da gustarsi a piccoli passi lenti, senza mai dimenticarsi di fare attenzione al respiro.