Qualcosa di insondabile dentro di me avverto.
Per quanto tumultuose siano le onde di gioia e di dolore, non possono raggiungerlo.

(Kitaro Nishida)

Il silenzio è per me un gran terapeuta e lo uso molto sia nelle sedute di coaching individuali che in quelle di gruppo, proprio per il suo grande potenziale di autoguarigione.

Contrariamente a quanto si può pensare, il silenzio ci parla ma lo fa con una lingua tutta sua, fatta di sensazioni, intuizioni, immagini, rapidi bagliori capaci di illuminare per un istante il nostro percorso, risvegliando la nostra natura di Buddha, ovvero la nostra potenziale e innata capacità di risveglio che il principe Siddartha incarnò pienamente 2500 anni fa.

Generalmente questo tema richiama lo scetticismo di molti, eppure il seme del risveglio abita qualunque essere senziente, nessuno escluso: è quello che scegliamo di fare con il nostro potenziale, che fa la differenza.

La nostra vera natura si può paragonare al cielo e la confusione della mente ordinaria alle nuvole. Ci sono giorni in cui il cielo è coperto e guardandolo da quaggiù, ci sembra impossibile credere che ci sia altro al di là di quella distesa di nuvole ma basta salire su un aereo per scoprire che lassù in alto c’è la vastità del cielo.

La confusione nasce quando iniziamo a credere che le nuvole siano il cielo, dimenticando che sono solo un fenomeno transitorio e mutevole come tutto ciò di cui facciamo esperienza.

La meditazione e il silenzio che si incontra durante la pratica, servono a pacificare la mente, a rasserenare quel cielo e a intuirne la vastità.

Tra le tante pratiche che suggeriscono di focalizzare l’attenzione su un oggetto in modo da contenere la dispersione di energia e da facilitare la concentrazione, quella dell’Anapanasati (la pratica di consapevolezza del respiro) è forse una delle più efficaci anche per chi si trovi alle prime esperienze di meditazione e quella che più facilmente propongo ai miei clienti.

In questo caso, trovata una postura comoda, si indirizza l’attenzione all’inspiro e all’espiro, senza alcuna volontà di modificarne il ritmo (che generalmente, con la pratica, si allungherà in modo naturale) cercando di tenere quanto più possibile la mente concentrata sull’oggetto. Questo comporterà un naturale e apparente proliferare di pensieri e/o sensazioni fisiche che sembreranno decuplicarsi per il semplice fatto di silenziare la mente e tenerla ferma sul respiro.

A questo punto subentra quella che io amo chiamare la pratica di gentilezza verso se stessi. Contrariamente a quanto la nostra mente reattiva e focalizzata sull’ottenere un risultato (in questo caso acquietare i pensieri il più possibile) tenderebbe a fare ogni volta che emerge un pensiero, la pratica dell’Anapanasati e in genere tutte le pratiche meditative, invitano a osservare il sorgere dell’attività come si osservano le nuvole nel cielo. La pratica ci sollecita quindi a non porre resistenza e/o a non sviluppare avversione per la comparsa dei pensieri, imparando a guardarli sorgere e svanire, senza attaccarvisi o farsi trascinare via dalla loro corrente.

L’attitudine meditativa più di altre ci mette in contatto con la natura impermanente dei fenomeni, per cui anche i pensieri, come i fastidi fisici che possono sorgere durante la pratica, hanno una loro durata: compaiono, si manifestano e si dissolvono.

Fare questo tipo di esperienze avvolti dal silenzio, contribuisce in modo del tutto naturale al sorgere di un vuoto fertile, all’interno del quale si crea lo spazio naturale perché le cose semplicemente accadano, cambino forma, si presentino con il loro carico di opportunità.

A proposito di vuoto, trovo curioso constatare come uno dei temi che direttamente o non mi trovo a trattare con i miei clienti di coaching, sia proprio il vuoto che li spaventa e che di solito tentano di riempire con parole, pensieri che ne chiamano altri in un continuo proliferare di mondi interiori.

Secondo la logica occidentale, quel buco è sinonimo di carenza, è il campanello di allarme che indica che qualcosa non va e che bisogna rapidamente trovare il modo di riempirlo. A mio avviso invece, quel buco è la grande opportunità che le persone che vengono da me portano in dono, spesso senza saperlo ancora. Da quello spazio, se debitamente curato e annaffiato attraverso la pratica di consapevolezza sul respiro, possono sorgere fertili occasioni di rinascita, proprio perché lo spazio vuoto è il centro creativo di tutto. Pensiamo alla musica: cosa sarebbero il notturno di Chopin o la nona di Beethoven senza le pause? E l’utilità di un vaso non sta forse in quello che non c’è?

Ecco, attraverso la pratica meditativa e la ricerca del silenzio, abbiamo la possibilità di accostarci in modo creativo e fecondo a quell’inevitabile senso di vuoto da cui tutto origina, scoprendo che spesso, quando ci si lascia portare dalla corrente, si incontrano nel vuoto cose sorprendenti.