Senza il trascendente e il trans-personale diventiamo morbosi, violenti e nichilisti; oppure, privi di speranza e apatici. Ci occorre qualche cosa di “più grande di noi”, che sia per noi oggetto di reverenza e ci impegni in un senso nuovo, naturalistico, empirico e non chiesastico; forse al modo di Thoreau e di Whitman, di William James e di John Dewey.

(Abraham H. Maslow)

Salute e benessere della persona sono concetti divenuti pressoché inseparabili: non solo perché l’OMS - Organizzazione Mondiale della Sanità - già dal 1948 dichiara che la salute sia qualcosa di più dell'assenza di malattia definendola uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, ma anche perché noi, spontaneamente, già intendiamo lo stare bene non come uno stato negativo – non essere malati – ma come uno stato positivo di salute; anche se “stare bene” può riguardare esclusivamente lo stato di salute fisica, tuttavia ormai da anni il concetto di salute si è allargato allo stato psichico e sociale.

La crisi economica di questi anni ha riportato il concetto di benessere ai suoi essenziali: il benessere materiale da soddisfare prima di ogni altra cosa; come nella famosa piramide di Maslow, i bisogni fisiologici e di sicurezza – riparo, cibo, sopravvivenza – sono bisogni primari che vanno soddisfatti per poter affrontare altri bisogni di tipo sociale, relazionale e spirituale dell’essere umano: i bisogni di affetto, di stima, di auto-realizzazione.

Il benessere materiale non è tuttavia sufficiente a far star bene la persona, né può da solo generare un benessere sociale, nonostante l’enfasi che nella nostra cultura viene data alla misurazione del PIL come indice di crescita di un Paese. È necessario infatti sottolineare come l’aumento del benessere materiale di un Paese non implichi l’equa distribuzione della ricchezza tra le persone: il coefficiente di Gini – uno degli indici utilizzati per misurare la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza – in molti casi è aumentato proprio in coincidenza con l’aumento della ricchezza prodotta, nonostante la diffusa credenza che l’aumento nella produzione di ricchezza inevitabilmente conduca all’aumento di benessere per tutti.

Sempre più numerosi sono gli studi che mostrano come la disuguaglianza percepita internamente dai cittadini di uno Stato – più che il diverso livello di reddito medio per persona - sia una delle cause principali di sofferenza sociale, psicologica e fisica. Sono perciò le regole del gioco economico, sociale e politico che vanno cambiate per migliorare il benessere delle persone: occorre rivedere radicalmente i presupposti su cui è fondato il concetto di benessere della persona, delle organizzazioni e dei sistemi sociali, politici ed economici.

La crisi economica nel tempo è divenuta anche crisi sociale e culturale, in cui si percepisce una deriva di senso, una perdita di direzione dell’agire umano: l’approccio fondato sull’utilità e la scelta razionale ha sacrificato i valori dell’agire umano al primato economicista del neo-liberismo. L’origine della crisi è nella visione dell’uomo che è stata assunta univocamente nella scienza economica e nella dottrina manageriale; questa visione dominante è basata sul presupposto dell’individualismo e dell’interesse personale da soddisfare, mentre l’interesse sociale si ipotizza venga soddisfatto automaticamente dall’agire congiunto di tanti individui separati nella loro ricerca di ottenere il massimo offrendo il minimo, esaltando nel contempo l’edonismo, il consumo fine a se stesso ed il benessere materiale personale come evidenza di successo sociale da imitare.

Questa è una visione del privilegio accordato al migliore. Qual è il suo presupposto? Che , come in natura, sia giusto che debba vincere “il più forte” e che, per analogia, il miglioramento sociale vada assicurato attraverso “la competizione”. Questa visione è, dunque, fondata sugli aspetti peggiori dell’uomo, in particolare sul vizio che è “radice di tutti i mali”: l’avarizia o avidità. Ecco come, nella sua introduzione al libro Avarizia, l’economista Stefano Zamagni la descrive: “(...) vizio capitale che raramente si palesa in quanto tale, indossando di volta in volta i panni dell’avidità, della cupidigia, della bramosia, dell’usura, della concupiscenza, della fame dell’oro, della taccagneria, della grettezza”. E, più oltre: “Se il superbo è posseduto da se stesso, l’avaro lo è dalle cose. Il suo comportamento presenta tratti inconfondibili: l’avaro accumula ma non investe; conserva ma non usa; possiede ma non condivide. Anche le società, e non solo i singoli, possono diventare avare; ed è proprio questo che fa problema rispetto al fine del progresso sociale”.

Come uscire da uno schema culturale, sociale ed economico in cui la radice dei vizi capitali governa e giustifica l’economia e la gestione delle imprese, in cui la diseguaglianza nella distribuzione del reddito alimenta ulteriormente l’accumulo di ricchezza in poche mani, in cui il fine ultimo dell’agire umano sembra essere unicamente l’atto di consumo per il soddisfacimento di bisogni reali o indotti?

In questi ultimi anni stiamo vivendo una rimessa in discussione di alcuni assunti fondamentali del paradigma economicista tradizionale e un ritorno importante della cosiddetta “etica della vita”, riconducibile all’idea aristotelica secondo la quale il bene non è un concetto astratto – come per Platone – ma qualcosa che si realizza attraverso le opere. Si sono aperti o ripresi filoni di studio e ricerca per comprendere cosa sia il benessere per l’uomo oggi, non potendo più confinarlo al solo benessere materiale, quanto piuttosto ponendolo in relazione con le tre dimensioni umane che devono svilupparsi affinché vi sia la sua piena ‘fioritura’: la dimensione materiale, la dimensione socio-relazionale, la dimensione spirituale.

A questi tre aspetti del benessere umano fanno eco tre tipologie di beni: i beni materiali o servizi, su cui viene definito il PIL; i beni socio-relazionali, che includono come valore la relazione tra le persone, di tipo intangibile; e i beni spirituali, che soddisfano il bisogno di equità, bellezza, sostenibilità ambientale e sociale.

Questi tre aspetti del benessere dell’uomo sono tutti e tre essenziali e devono perciò essere soddisfatti non in successione temporale né per auto-generazione bensì contemporaneamente. Si tratta di una relazione moltiplicativa – e, quindi, sistemica – e non additiva; nessuno dei tre può mancare o essere sostituito da un altro, pena l’azzeramento del benessere umano. Non possiamo sostituire il benessere socio-relazionale con il benessere materiale, barattando ad esempio il tempo per la famiglia con più denaro al lavoro: ciò crea intrinsecamente un conflitto tra le diverse dimensioni dell’uomo. Viceversa, la perdita del benessere materiale – per esempio la perdita del lavoro che assicura il mantenimento della famiglia – mina anche l’aspetto socio-relazionale e quello dell’auto-realizzazione.