C’è una tenerezza gigantesca oggi negli alberi,
quanta scapigliata bellezza oggi sotto vento.
E arriva fin qui e mi affratella,
dice tu e anche vieni, resta, scuci il senso,
esci veglia non spostarci da qui
non fare metafora né spettacolo di nostro inchinarci tutti interi
alla forza grande,
siamo così
in un amen tutto devoto tutto
che sia.

(Chandra Livia Candiani)

Ogni inizio d’anno ha in sé un qualcosa di magico, un’aura affascinante legata al pullulare di nuove possibilità che si dispiegano davanti a noi in tutto il loro potenziale inespresso.

Così Gennaio è il mese dei buoni propositi, degli intenti espressi in forma più o meno dichiarata, che accarezzano il nuovo ciclo di vita che si para davanti a noi.

Ma cos’è un intento e perché è così importante coltivarne uno, annaffiarlo con cura, concimarlo di attenzione, sostenerlo con pazienza.

Secondo la Treccani l’intento è ciò che è raccolto e teso verso un oggetto particolare, relativo ai sensi o alle facoltà intellettuali e psichiche. Riferito alla persona stessa, può esprimere sia l’attenzione verso ciò che attraverso i sensi della vista o dell’udito impegna e tiene occupato l’animo, sia, più genericamente, la concentrazione delle proprie facoltà ed energie su una determinata attività.

Da questa definizione si intuisce che l’intento è qualcosa che cattura, calamita la nostra attenzione e a cui rivolgiamo sforzi, pensieri, tempo. Alla fine, venendo alla sostanza, l’intento, vestito da ognuno in maniera più o meno colorata, è quello di essere felici, di essere liberi dalla sofferenza.

Il fatto è che la sofferenza esiste, è un dato di fatto dal quale è impossibile rifuggire e che fa parte anche di una delle 4 nobili verità che il Buddha trasmise dopo la sua lunga meditazione nel Parco dei Cervi.

La sofferenza esiste, dicevo, ed è vano pensare di poterla “manipolare” a nostro piacimento. Esiste però anche una via per liberarsi dalla sofferenza mentale che ci auto infliggiamo ogni volta che alla sofferenza ne aggiungiamo altra, spesso resistendole, negandola, negandoci (il diritto alla vita piena, il più delle volte), disabitando la nostra casa interiore, mancando ai preziosi appuntamenti di cui l’esistenza è prodiga, nascondendoci nel buco nero della paura di vivere.

Ogni volta che ci dimentichiamo di esserci, che facciamo finta di non vedere e di non sentire, ogni occasione in cui ci arrocchiamo su posizioni, punti di vista che ci distolgono dal fluire liberamente nella vita e dall’abbracciare una visuale più ampia e distesa delle cose, viviamo nella sofferenza, ci dimentichiamo di essere felici, che siamo in relazione con tutto il creato, anzi ce ne scordiamo proprio, cancelliamo questa parola dal nostro cuore.

Ci scordiamo di essere felici quando ci scordiamo di ringraziare, di salutare con un gesto gentile ciò che la vita nella sua muta perfezione ci offre in qualità di stimolo, preziosa occasione di crescita continua, di evoluzione eterna.

Ci disamoriamo della vita ogni volta che scordiamo che ogni cosa è figlia di cause e condizioni e che è meno “personale” di quanto il nostro Ego avrebbe tanta voglia di farci credere pur di rimanere saldamente aggrappato alle ombre delle sue proiezioni e alimentare la sofferenza che l’attaccamento genera.

Non stiamo nella vita quando ci irrigidiamo (non a caso si parla di rigor mortis per fare accenno a quello stato di congelamento, pietrificazione che ci coglie anche nel corpo quando il corpo cessa di battere e le linfe di scorrere) quando ci rifiutiamo di cambiare, di accogliere la trasformazione e gli eventi stessi come manifestazione profonda e intima di questo nostro essere al Mondo.

Vedete, dietro a ogni sofferenza abita un NO più o meno consapevole.
Una negazione, un non partecipare, un non esserci.
Ma pensate un po’ cosa accadrebbe se i nostri polmoni o il nostro cuore dicessero lo stesso no.
In verità questi, fintanto che la vita ci abita nel petto, dicono un costante, ritmato, profondo SÌ accettando di battere, pompare, dilatare e restringere.

Alla fine io credo che la vita stessa sia questione di ritmo, che ci sia un battere e un levare in ogni cosa e che l’armonia, la gioia, il senso di equilibrio tornino a farci visita quando ne rispettiamo il ritmo, assecondandolo, fluendoci dentro, come fa un pesce che nuota nel suo mare.

Quindi, se di propositi e intenti si deve parlare in questo inizio d’anno che sempre con immutata generosità bussa alla porta di San Silvestro con il suo carico di potenzialità, ecco che il mio proposito è quello di farmi acqua.

Acqua che accoglie, che si fa spazio, che trova sempre la strada, che sa scorrere leggera e dolce, irruenta e chiacchierina, sinuosa e lenta ma che sa farsi anche impetuosa e scura, fintanto che non abbraccia il suo Mare.