Quindi, se ho ben capito da quanto ci siamo detti nel precedente dialogo, noi definiamo l’etica come il modo di essere di una identità. Che questa identità sia quella personale, o quella che emerge dalla relazione di coppia, dalle relazioni familiari o dalle dinamiche di un’organizzazione, non rileva. Ciò che rileva è che ci sia un’identità in cui ci si possa riconoscere consapevolmente. “Se io mi sento allineato a questa identità in cui mi riconosco io ne partecipo l’etica, il modo di essere dell’identità”. Sarebbe allora necessario chiarire cosa si debba intendere per “essere un’identità” rispetto ad “avere una identificazione” e questo per poter poi parlare dell’etica dell’essere e comprendere il processo di allineamento. Che ne pensi?

Ti ringrazio per aver di fatto chiarito che l’how fa parte dell’essere ed essere significa innanzi tutto essere un’identità. In particolare, la differenza fondamentale tra how e what è data dal livello di coinvolgimento della persona nella costruzione della realtà. È solo migrando da una coscienza riflessiva, razionale ed analitica a una coscienza più profonda, intuitiva, emozionale, “immediatamente umana” – dove per umana ci appelliamo all’umanità della persona – che diviene possibile essere etici, incorpare e incarnare l’etica per poter educare con l’esempio dell’azione. Mi viene da pensare, a proposito, alla differenza tra pensiero veloce e pensiero lento. Il primo che dà potere all’ingaggio emotivo, inintenzionale, basato sull’automatismo dell’intuizione e della connessione alle nostre esperienze più profonde che si manifestano con immediatezza a livello senso-motorio; il secondo, invece, che dà potere alle abilità cognitive, basato sul ragionamento, sulla logica del step by step consequenziale, sulla ricerca di quella causalità lineare che tanto ci separa dal coinvolgimento e da una effettiva comprensione del flusso degli eventi.

Ma non credi che lasciarsi guidare dall’intuizione e agire in modo inintenzionale possa farci commettere un sacco di errori e comunque essere giudicati superficiali e improvvisati?

Bella domanda! Certo che sì! Agire secondo un etica del know how fondata sul principio della prontezza all’azione non significa che non si commettano errori di valutazione delle singole situazioni o che i comportamenti posti in essere siano sicuramente e senza ombra di dubbio etici ed efficaci. Ma è la spinta fondamentale, quella da cui si origina il comportamento, ad essere etica. E questo non implica un giudizio di valore sull’azione quanto un giudizio di valore sul processo di generazione dell’azione. La coscienza riflessiva, quella impostata sui canoni della razionalità, può condurre ugualmente a comportamenti etici, forse migliori di quelli originati dalla coscienza consapevole di sé, e certamente i migliori comportamenti possibili, valutate tutte le circostanze e le attenuanti del caso specifico. Tuttavia, essa conduce ad una serie di norme e codici atti a sviscerare, per ogni singola situazione, i comportamenti più opportuni per “avere” comportamenti etici. Può l’etica essere costruita a tavolino, posseduta come fosse una merce da scambiare sul mercato? Certo. Ma poi per assurgere a un’identità consapevole e a un’inintenzionalità che le conferisca autenticità dovrà trasformarsi in un comportamento incarnato … quasi in un automatismo comportamentale.

La cosa si fa sempre più intrigante! Dunque, secondo quello che stiamo dicendo, essere etici comporta innanzi tutto un processo di apprendimento della persona, la quale, attraverso comportamenti ripetuti, incorpa dentro di sé un saper essere etico che, tempo per tempo, si evolve in relazione ai diversi livelli di identità cui partecipa... Ma non credo che ciò avvenga sempre o, ancor di più, che sia facile! Per essere allineati è necessario che pur partecipando a diversi livelli e tipi di identità relazionali vengano rispettati i principi che abbiamo posto a fondamento della nostra identità personale.

Infatti, per molti l’etica è e rimane prevalentemente il what: un insieme di norme comportamentali. Prendi ad esempio la Corporate Social Responsability, la famosa CSR, fatta soprattutto di regolamenti e codici etici dei quali spesso si impone la sottoscrizione al momento dell’assunzione in un’azienda pubblica o privata. È abbastanza chiaro che le cosiddette norme etiche sono generalmente improntate al what e non all’how e che “averne” diviene mezzo di scambio sul mercato: la CSR diventa un valore di scambio con i clienti per favorirne l’acquisto dei prodotti. Nei discorsi attorno al comportamento etico “da tenere” c’è soprattutto l’etica del cosa fare per. E questo nonostante dentro ognuno di noi sia già formato un saper essere etico che ci appartiene, che è incarnato quale risultato etico delle nostre esperienze, della nostra storia auto-biografica. Ecco perché è necessario fermarsi e divenire consapevoli di ciò che già siamo, di ciò che già facciamo, rendendo così riflessiva anche la nostra parte più istintiva, di cui, spesso e volentieri, siamo ciechi a noi stessi! Noi siamo invece abituati a darci norme alle quali attenerci e, nel caso non vengano rispettate, a prevedere forme di richiamo, di allontanamento e, comunque, di punizione. Sono norme cogenti, che non sono il frutto di una libera scelta … due mondi, due modi completamente differenti di intendere l’etica. Essere l’identità e avere una identificazione sono due processi di manifestazione dell’etica che possono facilmente entrare in conflitto e generare situazioni di grande insoddisfazione personale o all’interno delle organizzazioni sociali di cui siamo parte.

Se ho ben capito, però, tu non pensi che per forza di cose l’una escluda l’altra…

No, affatto, anzi. Sarebbe opportuno dedicare finalmente una parte degli studi al comportamento naturale delle persone, al loro saper essere che si evidenzia nelle loro azioni quotidiane. Ciò consentirebbe di apprendere da ciò che già sappiamo fare, da ciò che facciamo, per poterlo poi insegnare anche agli altri, diffondendo tra le persone un agire etico attraverso il reciproco rispecchiamento. Si tratta del modo più immediato e creativo per facilitare l’apprendimento anche in età adulta. Contemporaneamente, comprendere i processi di identificazione, spiegarne le fasi e le ragioni permette di assumere consapevolezza sulla propria separazione dall’Io etico e sulla scelta di aderire ad un’etica che potrebbe non appartenerci e non rispecchiare la nostra immediatezza inintenzionale. Dunque, potrebbe permetterci di lavorare per creare un allineamento, per manifestare con trasparenza e autenticità il nostro Io Etico evitando così sofferenza e contrasti.

Si tratterebbe di “educare con l’esempio”, come spesso noi amiamo dire...

Sì. Questo processo non esclude la componente riflessiva, la quale però, oltre ad essere interessata al momento del know what teso a maturare nuovi modi d’essere attraverso un filtro mentale, interviene anche successivamente all’azione istintiva compiuta inconsapevolmente. In questo modo diventa immediatamente possibile rendere esplicito un sapere che è incorpato in ognuno di noi e di cui spesso non siamo consapevoli. Pensate a quanti comportamenti mettiamo in pratica perché appresi da bambini, poi da ragazzi e magari anche in età adulta solo perché abbiamo imitato empiricamente o per convenienza l’agito di altri. Ci siamo mai soffermati per comprendere il perché di queste azioni e come queste azioni siano più o meno allineate ai nostri desideri più profondi? Si eviterebbe così quella discrepanza che tanto spesso siamo costretti a rilevare tra quanto affermato verbalmente – ciò che sarebbe bene fare – e quanto poi effettivamente agito.

Fermandoci al know-what, rischiamo di fermarci, come purtroppo spesso accade, solo all’aspetto formale dell’etica, che difficilmente corrisponde poi all’aspetto sostanziale. Da qui la necessità, ove possibile, di rendere cogenti le regole che stabiliscono l’etica nei comportamenti. Partendo invece da ciò che istintivamente già siamo abili a fare, possiamo provare, attraverso l’osservazione prima e la riflessione poi, a rendere le diverse ricchezze personali un patrimonio comune di saperi la cui manifestazione non richiede interventi impositivi ai quali sottostare.

Proviamo a spiegare meglio che cosa si intende per “etica del come”, o etica dell’essere. Pensiamo ad un’organizzazione, per esempio ad un’azienda…

Nel nostro primo dialogo abbiamo detto che l’etica, intesa come know-how, presuppone necessariamente l’esistenza di un’identità. Quindi se noi vogliamo provare ad introdurre dei comportamenti etici in un’azienda, è necessario che questa azienda abbia generato o si adoperi per generare un’identità in cui tutti gli agenti organizzativi si riconoscano con consapevolezza.

Vuoi dire che è necessario che l’identità sia formalizzata? Che a livello organizzativo sia necessario stilare uno specifico documento che sancisca quali siano le caratteristiche di questa identità in cui gli stakeholders si possano o si debbano riconoscere?

No, non credo. Non necessariamente l’identità deve essere formalizzata, per esempio scritta in un documento specifico; la cosa essenziale non è tanto che sia scritta, quanto che ognuno ci si riconosca sentendo il proprio Io Etico allineato all’identità dell’organizzazione. Perché le persone possano riconoscersi in un’identità più grande di sé stesse, occorre a mio avviso che esse partecipino attivamente alla sua formazione. Si tratta perciò di un processo cui ognuno è chiamato a partecipare, indipendentemente dal ruolo svolto all’interno dell’azienda. Infatti, trattandosi di un processo complesso e non di un oggetto, l’identità emerge dal contributo di ognuno ed è in continua trasformazione. L’immagine che se ne può dare, perciò, è solo la fotografia di qualcosa che in realtà non esiste di per sé. Se l’identità è stata scritta dal consiglio di amministrazione, su ciò che questo ritiene sia la migliore identità per l’azienda, di certo non si tratta di un’identità emersa dal basso; e, comunque sia stata generata, se le persone che appartengono al “basso” non vi si riconoscono, non è un’identità. Perché ci sia un’identità che caratterizza le relazioni organizzative, non importa che sia scritta (può essere eventualmente tra-scritta anche mentre si forma); è necessario, piuttosto, che le persone sentano di appartenere ad un’identità perché partecipano continuamente alla sua costruzione attraverso le proprie azioni. L’identità è sempre in cammino e caratterizza collettivamente ogni situazione organizzativa.

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