Che brutta la sensazione con la quale ci siamo lasciati nell’ultimo dialogo, quello sul progresso … perché decidiamo di sacrificarci pur avendo ben chiaro che l’unico premio che ci attende è la crescita dei consumi e il malessere? Ma di che felicità si sta occupando il consumatore moderno?

Sì, proprio così. Una felicità collegata ad una spinta sempre più forte all’accumulazione di beni materiali e di risorse finanziarie. Ed i sacrifici richiesti sono immensi, non solo per la persona, ma anche per i sistemi sociali a cui appartiene e per il pianeta nella sua globalità.

La ricerca della felicità abbiamo visto che viene intesa, nell'approccio economico tradizionale, come un costante tentativo di consumo di beni e di servizi in una ricerca senza fine, in cui si sperimenta un perenne stato di bisogno, di carenza, di insoddisfazione... e non certo di felicità!

Insomma, mi pare che stiamo affermando che benessere sociale, come inteso nel paradigma classico, e sopravvivenza siano concetti fortemente interrelati...

Direi proprio di sì. Abbiamo visto in precedenza come il concetto di progresso venga inteso unicamente come sviluppo economico, che viene agevolmente quantificato in indici di crescita quali il PIL; i presupposti su cui esso si fonda sono gli stessi che ritroviamo nel concetto di sopravvivenza: la solitudine, la separazione l'uno dall'altro, l'egoismo, il sacrificio, l'adattamento ad una situazione che non si può influenzare in alcun modo.

Con questi presupposti ed in questo contesto di sopravvivenza, il benessere economico sembra veramente il massimo che si possa sperare di raggiungere!

Purtroppo sì, ecco perché è così importante imparare a riconoscere i presupposti su cui fondiamo il nostro modo di concepire noi stessi e la realtà che ci circonda. I nostri presupposti - ciò che noi chiamiamo il nostro paradigma culturale - diventano per noi dei miti, delle idee in sé, che governano le nostre percezioni, i nostri pensieri e le nostre azioni. Il concetto di sopravvivenza è divenuto uno dei miti più importanti del XX secolo, a cui rimaniamo abbarbicati come scimmiette nella giungla!

Grazie anche agli studi effettuati da Darwin e da Wallace sull'origine della specie umana e sull'evoluzione, si è trovata una base scientifica 'razionale' ai concetti di lotta, di sopraffazione, di sopravvivenza del più forte, di capacità di adattamento a situazioni ostili. Questo nonostante lo stesso Darwin non fosse d'accordo ad incentrare il concetto di evoluzione unicamente sugli aspetti aggressivi della lotta per la sopravvivenza, ma desiderasse sottolineare anche l'importanza degli atteggiamenti collaborativi nel consentire ad una specie di evolvere.

Gli aspetti più deleteri della natura umana hanno così trovato una valida giustificazione non solo per la loro esistenza, ma persino per la loro esibizione: l'egoismo si è trasformato in una qualità importante per l'esistenza umana, poiché assicura la sopravvivenza della specie; l'eliminazione dei più deboli fa parte delle regole di 'natura', che assicurano la sopravvivenza solo degli individui 'migliori'. Ecco così che i concetti di homo oeconomicus, razionale ed egoista, di legge di mercato che permette la sopravvivenza dell'azienda più forte, di competizione che premia il migliore - già sorti durante la rivoluzione industriale per giustificare i cambiamenti sociali cui l'uomo occidentale si stava sottoponendo - trovano una conferma definitiva e scientifica fondata sulla storia evolutiva della razza umana e di tutte le specie che popolano il nostro pianeta. Dawkins, un neo-darwinista, parla persino di gene egoista, attribuendo un connotato appartenente tipicamente al carattere umano ad un 'ospite' delle nostre cellule, il quale agisce oltre ogni limite del volere umano al fine di assicurare la propria esistenza, la propria sopravvivenza nel tempo oltre la morte dell'individuo ospitante.

Ma perché si parla di sopravvivenza e non di vita? Che cosa distingue l'una dall'altra?

La differenza tra sopravvivere e vivere mi pare abissale! C'è una definizione di sopravvivenza data da Xavier Maniguet, e che ho trovato proprio studiando i principi su cui si fonda lo scoutismo, che mi pare esemplare; essa afferma:

La sopravvivenza corrisponde alle condizioni di vita di un soggetto che, posto in un ambiente aggressivo, prolunga per un tempo limitato il periodo che lo separa dalla morte.

In questa definizione, come vedi, si parla di prolungare il tempo di attesa della morte in un ambiente aggressivo, ostile: ci si relaziona con la morte, e non con la vita. Pensa a quanti e quali presupposti sono insiti in questa visione!

Mi viene in mente, tanto per citarne qualcuno, che la vita è sofferenza, che la natura è pericolosa e come tale va domata, che bisogna sapersi adattare ad ogni luogo e ad ogni situazione, che occorre sacrificarsi per andare avanti, che 'chi si ferma è perduto', che occorre lottare sempre e non arrendersi mai... mi viene in mente anche il mito di Robinson Crusoe che deve sopravvivere su un'isola deserta, e persino L'Isola dei Famosi! Tutto questo lo ritroviamo dai film alle canzoni, ai corsi di formazione 'alla sopravvivenza in condizioni estreme' che vanno oggi di moda nelle aziende...

È un modello di pensiero che ci avvolge completamente, così in profondità che nemmeno ce ne accorgiamo, lo diamo per scontato, ossia come l'unica modalità possibile.

Ed esistono invece altre modalità possibili?

Certo, tutte le altre! Questa è evidentemente una forma di pensiero collettiva - una idea in sé, come dicevamo prima - così radicata in noi e così pervasiva in ogni aspetto della nostra vita - dall'economia, come abbiamo visto a proposito del benessere e malessere sociale e dell'utilità e sacrificio individuale, all'educazione dei nostri figli, in cui li prepariamo a non fidarsi degli altri ed a combattere contro un mondo ostile - che non riusciamo a vedere e tanto meno ad immaginare modi diversi di esistere. Ci stiamo preparando psicologicamente all'estinzione in massa della nostra specie e persino del nostro stesso pianeta: adesso si parla di sopravvivenza della Terra, e non più di vita. Viviamo - anzi, esistiamo - in una condizione di costante emergenza, a cui ci siamo in qualche modo assuefatti, pur se ci sentiamo in uno stato di perenne nevrosi. Persino le guerre non sono più eventi straordinari, a cui è auspicabile sottrarsi con ogni mezzo a noi possibile, ma sono divenute enduring, cioè costanti, in qualche modo eterne... così pure il terrorismo e la lotta al terrorismo; tutto ciò che ci circonda, che lo si voglia o no, è ostilità, lotta, emergenza continua, a cui dobbiamo adeguarci nel tentativo di sopravvivere.

In uno stato del genere, di perenne emergenza, non si è più nemmeno responsabili delle proprie azioni, perché è l'emergenza che detta le regole, e non più la persona che le pone in essere...

Purtroppo sì, le conseguenze sia individuali che sociali di un tale modo di concepire la nostra esistenza sulla Terra sono drammatiche. Come ben sappiamo tutti, quando si vive in uno stato di emergenza si perdono le regole base della convivenza civile: saltano le regole democratiche, il rispetto della persona, il rispetto persino della vita... Come vedi, quando consideriamo la nostra esistenza come uno stato di sopravvivenza, creiamo attorno a noi tutti i presupposti del conflitto e della separazione, sia tra gli uomini che tra gli uomini e l'ambiente che li circonda.

Perdiamo il nostro potere, delegandolo a coloro che si mostrano più forti, più coraggiosi, più potenti... e spesso anche più prepotenti! In questa visione macabra dell'esistenza, tutto quello che ci è consentito fare è di adattarci, pur di prolungare il tempo che ci separa dalla morte.

E che cos'è allora la vita?

È superare questo stato di paura, immergersi completamente nel flusso del cambiamento senza pretendere di poterlo governare, è accettare di essere in relazione con tutto ciò che non è sé, anziché essere in lotta ed in contrapposizione. È partecipare alla trama della vita ed apprezzarne la bellezza.

Stiamo tornando così ai principi fondamentali della complessità, e dell'etica legata alla complessità...

Certo, l'etica della complessità comporta il divenire consapevoli di essere in relazione accettando di non dominare, ma di partecipare con gioia a tutto ciò che questo comporta.

Si tratta certamente di un cambio di paradigma, dal sentirsi separati ed in lotta l'uno contro l'altro al sentirsi in relazione l'uno con l'altro e con tutto l'universo. È la coscienza planetaria a cui fanno appello il Dalai Lama ed Ervin Laszlo e di cui abbiamo già fatto cenno, così come la coscienza globale a cui fa riferimento Mario Capanna nel suo libro; sono in molti, ormai, a rendersi conto che il nostro sistema di pensiero è giunto al limite, e che occorre cambiare i propri presupposti per poter poi agire di conseguenza.