Prendo spunto dall’ultimo libro di Patrizia Boi Mammoy, di Catorchio, Cletus e altre avventure (dei Merangoli, luglio 2019) per parlare di guarigione attraverso la fiaba, un tema che verrà sviluppato da Patrizia il prossimo 27 ottobre a Palermo nel corso del II Convegno “Tra Scienza e Coscienza. La Guarigione… dalla Mente al Cuore”, al quale parteciperò anch’io in veste di relatore.

Dalla notte dei tempi gli uomini hanno raccontato storie per favorire la loro evoluzione spirituale, hanno individuato modelli originari di essere, di pensare, di sentire e di agire presenti nell’inconscio collettivo. Anche nella Bibbia, il monaco dell'abbazia benedettina di Muensterschwarzach, Anselm Grün, ha descritto alcuni personaggi biblici e i loro archetipi di uomini imperfetti che affrontano la via pericolosa ed avventurosa del "divenire uomini". Insomma, ognuno compie il proprio ‘viaggio dell’eroe’.

Secondo la Boi è necessario creare un ‘Uomo Nuovo’, capace di allargare la sua coscienza oltre le programmazioni della tecnocrazia. La scrittrice, che è anche un ingegnere, conosce i limiti di un mondo sempre più legato al potere della tecnologia e al suo sviluppo che avviene a una velocità esponenziale. Quindi, ispirata da iCub, la creatura dello scienziato Giorgio Metta – un robot che impara sperimentando come un bambino di tre anni – fa nascere dalla fantasia dello scienziato Lug il robottino Catorchio che, come un Pinocchio di metallo, diventa un bambino vero grazie al viaggio in quel mondo magico che si è perduto nel chiasso martellante delle informazioni. Così ‘prende vita’ la lunga fiaba Mammoy, costituita da altre dodici fiabe narrate alla maniera del Decameron di Boccaccio, finalizzata alla necessaria evoluzione dell’eroe Catorchio.

Il Catorchio di Patrizia, questo ‘Uomo Nuovo’, nasce anche dai percorsi spirituali compiuti con Arkadij Petrov, per il quale è necessaria "La nascita spirituale dell’Uomo" che oggi ha perduto le sue radici dell’Albero della vita. Ogni albero è un Albero della vita ed è fondamentale per l’evoluzione dell’Uomo. Infatti, l’Albero cosmico di Yggdrassil è “l'axis mundi dell'universo scandinavo, il frassino che si leva al centro dell'universo e rappresenta la continuità e la vita stessa dei nove mondi. Esso sorge nell'asse nel cosmo, le sue radici attingono alle sorgenti più antiche e profonde dell'universo e con i suoi rami sostiene e copre tutti i nove mondi”. La pianta è dunque un collegamento al cielo e alla terra, è assolutamente necessaria per rimmergere le proprie radici nella Madre Terra, per spiccare il proprio volo sciamanico verso una percezione più sottile delle energie invisibili. Anche Catorchio entra in uno stato di coscienza sempre più espanso, si libera dalle catene delle sue programmazioni di robot e acquisisce un senso della realtà sempre più profondo. Può viaggiare nello spazio e nel tempo, può arricchirsi incontrando aiutanti magici, altri viaggiatori, ma soprattutto entrando in sintonia con lo Spirito delle piante. La scrittrice crea un suo Alfabeto Ogham, costruisce dodici pilastri vegetali che indirizzano il nostro eroe verso la riscoperta della natura, della sua bellezza, della sua grandezza, della sua azione necessaria, crea la sua scrittura arborea a partire dalle piante Aromatiche, quelle nate in Sardegna ma presenti anche in ogni macchia mediterranea. Come in qualsiasi panorama fiabesco, ne emerge una concezione spirituale arcaica, una sorta di animismo diffuso, una spiritualità panteistica dove ogni cosa animata o inanimata possiede uno spirito che interagisce con l’eroe e lo affianca nel suo percorso. Il mondo vegetale è il vero mondo degli dèi, dove ogni trasformazione è possibile: il fiore dello zafferano si può trasformare in una splendida bimba, la pianta del rosmarino può tramutarsi in una principessa, il finocchietto può mutarsi in una pianta magica per curare malattie fisiche e spirituali, la pianta d’alloro si può trasfigurare divenendo una tessitrice straordinaria, lo spirito femminile della salvia può salvare dal diavolo, attraverso il sibilare del vento tra le foglie di ginepro può nascere una musica, dal basilico può essere ricavato nutrimento per il corpo e l’anima, il suono di un piffero di foglie di timo può far morire dal ridere, il mirto può curare una ferita d’amore, una principessa dal profumo di menta può avere una voce straordinaria, una bacchetta di ginepro può liberare un intero popolo prigioniero e dal lentischio si può ricavare un Profumo per ridonare odore agli uomini. Il mondo vegetale, poi, interagisce con i protagonisti della fiaba, delle fiabe in essa racchiuse e con il nostro piccolo eroe che ci conquista con la sua simpatia, con la sua spontaneità e con la sua immensa curiosità. Catorchio non si ferma all’apparenza, viaggia fuori e dentro le storie, si immerge nei mondi che Lug, il suo padre-madre, genera per lui affinché si evolva verso la dimensione umana. Questa crescita spirituale viene felicemente rappresentata dalle immagini di Niccolò Pizzorno, illustratore attento e creativo dell’opera.

Questo ‘Uomo Nuovo’ però è un bambino e solo attraverso il nostro bambino interiore possiamo espandere la coscienza ed esplorare con saggezza la realtà esterna e il bosco incantato dell’inconscio. Non per niente il fratello spirituale di Catorchio, compagno di tutte le sue avventure, è Cletus, un ragazzo scanzonato che fa danzare entusiasta il bambinello che conduce sempre con sé. Del resto, come sostiene Claudio Tomaello nel suo libro Le Fiabe sono vere (2014), il racconto è un mezzo essenziale per raggiungere la consapevolezza di sé. Inoltre, per lui “la fiaba è un testo sacro: per narrarlo c’è bisogno di uno spazio sacro e di un tempo sacro che conservi la saggezza del ritmo”. E in Mammoy, la vicenda, pur narrata nello spazio di luoghi specifici, si svolge in un passato volutamente indefinito, a volte molto lontano, un’epoca remota, sepolta in una memoria antica che ci rammenta la storia dell’uomo, oppure la sua preistoria. In questo contesto il sacro è fondamentale, il femminile emerge nei gesti delle donne, che come sacerdotesse compiono azioni e creazioni, nella leggerezza dei personaggi fatati, nelle parole delle Janas, nella bellezza primigenia degli Elementali del Piccolo Popolo. Si chiede all’uomo un’evoluzione che superi l’insensatezza dei mille impegni quotidiani, che generi il silenzio nel frastuono delle sollecitazioni che l’informazione incalzante e spesso violenta o negativa crea distogliendolo dalla propria vera missione. Suggerisce di lasciar andare quell’atteggiamento di Ipervigilanza che costringe a vivere sempre sulla difensiva, in un mondo pericoloso che incute paura, perseguitati dalla necessità economica, dai ladri, dai migranti che vengono a usurpare i nostri diritti acquisiti, da una bomba d’acqua, da una tromba d’aria, dalla grandine con chicchi grossi come frutti. Bisogna, invece, cogliere il frutto che germoglia in un terreno fertile, che nasce da una difficoltà o un conflitto, quella trasformazione incessante verso cui spinge la Fiaba. Se ci liberiamo di tutto questo frastuono, del pericolo e della paura, si spalancano nella nostra mente i prati verdi della fantasia, i cieli azzurri dell’immaginazione, i campi rigogliosi della metamorfosi e l’acqua della vita scorre in tutta la sua pienezza. Si può in questo modo prestare attenzione alla bellezza di un sito archeologico, all’energia delle pietre, al richiamo profondo del bosco.

Ma chi è il vero antagonista della vicenda, quel sabotatore interiore che ostacola il viaggio? Si tende ad attribuire sempre la colpa all’esterno, si eleva un lamento incessante come accade al personaggio di Gianguido, il “mugugnoso”. “Poteva essere felice e soddisfatto della sua esistenza se non fosse che un giorno faceva troppo freddo, il giorno dopo tirava troppo vento, quello successivo c’era una pioggia fastidiosa, dopo una settimana la brezza leggera era, però, troppo umida, oppure il cielo era troppo scuro, o troppo chiaro, o troppo nuvoloso e così via”.

Il vero antagonista dell’eroe è proprio quell’atteggiamento mentale di lamento che abita dentro ognuno di noi. Il mugugno crea fili e ragnatele che legano, paralizzano e riempiono di paura, un gesto che non consente di canalizzare le proprie energie per affrontare il viaggio verso la propria personale missione. Ognuno deve partire per la sua strada, diventare un eroe alla ricerca della verità. La strada dell’eroe, infatti, come un viaggio ulissico senza fine, conduce a piacevoli ed entusiasmanti nuove scoperte. Il tesoro, come direbbe Claudio Tomaello, è dentro di noi, il viaggio attiva in noi la voglia di scoperta, perciò nella sua postfazione del libro ha posto l’accento sull’importanza della tredicesima fiaba, quella non ancora scritta, ma che di certo Patrizia scriverà perché la promette già alla fine semplicemente con la parola: Inizio. E anzi secondo Tomaello: “L'ultima fiaba non finisce perché ... dobbiamo finirla noi». Così sprona il lettore dicendo: «non permettere a nessuno di dirti cosa c'è dentro lo scrigno del tuo cuore, solo tu puoi scoprirlo. Solo tu puoi conoscere i tuoi desideri profondi, i sogni che ti chiamano; solo tu, vivendo”. E lui che si intende di ‘Uomini in evoluzione’ si rende conto che nella Fiaba la morte è un passaggio necessario per risorgere ad un’altra vita “la fine è solo la possibilità di un nuovo inizio”. Perché in realtà il vero obiettivo che ha il racconto, la narrazione, la fiaba è quello di metterci in cammino. Come suggerisce sempre Tomaello: “La fiaba più importante è quella che scriviamo con la nostra vita» e di certo la fiaba più bella, per dirla con Nazim Hikmet, è «quella che ancora non abbiamo scritto…”.

Infine, ringrazio Patrizia Boi perché mi ha reso protagonista dell’undicesima fiaba, col nome di Tisifeo, un pescatore di coralli che si prende cura di tutta la sua comunità attraverso la magia di una bacchetta di sambuco, missione che metaforicamente fa riferimento al mio lavoro di Kinesiologo. Perché nella Fiaba, ogni avvenimento, ogni comportamento, ogni azione diventa simbolo e si proietta nel mondo dell’archetipo.