Dopo tre anni di esperienza all'interno dell’equipe medica del Day Hospital del reparto psichiatrico dell’ospedale di Genova, in stretto contatto con i cosiddetti pazienti psichiatrici, la questione su cui mi interessa far luce è questa, e cioè che spesso il ricorso alla psichiatria è improprio. Sempre più spesso si ricorre a uno psichiatra come a un factotum, qualcuno in grado di risolvere problemi che non si sa bene da chi altri potrebbero esser risolti. Un tempo, nemmeno troppi anni fa, quando le cose non giravano per il verso giusto, si andava in chiesa, ci si confessava davanti al prete, si può anche dire che ci si confidasse con lui, non soltanto per ottenere un sollievo immediato nell'essere ascoltati, ma anche e soprattutto per vedere se la parrocchia, con i vasti contatti sociali e il potere territoriale di cui ha sempre disposto, potesse in qualche modo essere d'aiuto a risolvere i problemi in questione. Conosco persone della generazione di mia madre che ancora oggi lo fanno, invece di andare dallo psicoterapeuta impacchettano una dozzina di uova e vanno dal parroco, o da un francescano.

A tutt'oggi, la maggior parte delle persone che giungono in psichiatria – soprattutto quelli che frequentano il Day Hospital1, piuttosto che i pazienti ricoverati in reparto – si rivolgono all'equipe medica nella speranza che psichiatra e infermieri possano capirli e, come per magia, aiutarli a risolvere i loro problemi. Ma il punto è che le sofferenze e i disagi delle persone derivano nella maggior parte dei casi da problemi sociali, da pesanti ristrettezze economiche, dalla disoccupazione, dalla solitudine e dall'assenza di cure per persone anziane e sole, insomma da questioni che la psichiatria non può in alcun modo risolvere e di cui in definitiva non deve farsi carico.

Molto spesso il disagio delle persone che frequentano il Day Hospital in qualità di pazienti non è di natura psichiatrica, e il più delle volte non è neppure di natura prettamente psichica. Sebbene le diagnosi più frequenti siano quelle di depressione, ansia e disturbi della personalità, nella maggior parte dei casi queste patologie non sono altro che etichette da apporre a ogni nuovo arrivato per adempiere alla prassi ospedaliera, piuttosto che soddisfacenti descrizioni del problema in tutta la sua sfaccettata realtà. C’è un grande scollamento, un enorme divario tra le arbitrarie classificazioni della psichiatria e ogni essere umano nella sua singola, peculiarissima storia.

Non è raro che siano le persone stesse ad aver bisogno e a richiedere una diagnosi, per sentirsi in qualche modo confortate dal senso di appartenenza a una condizione vagliata dalla scienza medica. Può sembrare paradossale, ma spesso «essere depresso» piuttosto che «soffrire di ansia» viene percepito come una condizione rassicurante, perché permette di circoscrivere la sofferenza a un preciso ambito, a una causa specifica. Avere la possibilità di individuare in un deficit psichico l'origine del proprio dolore, può alleviare in qualche modo la percezione di sentirsi responsabile della propria infelicità.

In secondo luogo, «essere depresso», «soffrire d’ansia», ecc., può costituire un principio di identità, cosa di cui spesso nella nostra società si ha un gran bisogno. Ho visto molte persone accettare di buon grado una diagnosi di bipolarismo – che oggigiorno a quanto pare non si nega più a nessuno – pur di accaparrarsi uno straccio di personalità. Ma è proprio per questo motivo, per questo disperato bisogno di «sentirsi qualcuno», di capire chi si è, che si finisce persino per accettare di avere un disturbo mentale. Meglio malati che niente.

Tra le centinaia di uomini e donne che ho visto arrivare in Day Hospital chiedendo aiuto per i loro problemi e le loro sofferenze, non c’è stato un solo caso cui siano stati negati diagnosi e relativa cura farmacologica. Ho conosciuto molti «pazienti» – le diagnosi più comuni erano quelle di depressione, di ansia, di disturbo bipolare – ma nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di persone le cui sofferenze non avevano nulla a che fare con patologie psichiche, ma che derivavano piuttosto dalle più svariate contingenze della vita. Molti soffrivano per delusioni d'amore, altri erano in lutto, altri ancora erano disperati perché avevano perso il lavoro.

Ricordo un distinto imprenditore la cui ditta era disastrosamente fallita. Nel giro di pochi mesi lui e la sua famiglia – aveva una moglie e tre figlie – erano passati da una vita di lusso ai pasti caldi della Caritas. Inutile dire che l'ex-imprenditore aveva vissuto il suo tracollo come un'umiliazione e, per trovare sollievo, si era rivolto al Day Hospital psichiatrico. L'ex-imprenditore non era niente affatto pazzo, men che meno depresso, era soltanto un uomo messo alla prova dalle durezze della vita che, a volte, per sdrammatizzare, sosteneva di avere in tasca uno smeraldo da 30.000 euro oppure progettava di cavarsi un occhio – in effetti aveva un bel paio di occhi verdi – per venderlo e tenere a bada gli strozzini. Il medico psichiatra da cui era in cura, non pago d'avergli già rifilato certi pasticconi antidepressivi di nuova generazione, appuntò sulla sua cartella clinica: «Depressione esogena con principi psicotici». Ah, adesso fare dell'ironia è diventato un principio psicotico!

L'unico modo per aiutare l'ex-imprenditore sarebbe stato procurargli un altro lavoro, ma purtroppo il reparto psichiatrico non è un ufficio di collocamento. Quel che voglio dire è che in certi casi è meglio non fare niente, ammettere con un po' di onestà intellettuale di non avere il potere né la possibilità di aiutare qualcuno, al limite consigliarlo di rivolgersi altrove. L'ideale sarebbe che un servizio psichiatrico, da vero organo sociale quale dovrebbe essere, fosse in contatto con altre strutture, con enti pubblici, con associazioni, e che tutto il potere e l'influenza di cui i medici sembrano farsi vanto venissero dispiegati per aiutare a trovare sul serio un nuovo lavoro al «paziente». Se un servizio psichiatrico (o meglio di salute mentale) fosse un reparto seriamente responsabile, ogni giorno dovrebbero essere compilate, oltre alle inevitabili cartelle cliniche, anche «cartelle sociali», per così dire, in cui stilare un piano d'intervento e di collaborazione con le strutture socio-assistenziali presenti sul territorio, per aiutare il paziente a risolvere problemi alla cui origine, evidentemente, concorrono motivazioni ben diverse da quelle personali e patologiche. Sarebbe auspicabile che la psichiatria si trasformasse in un centro di analisi e smistamento dei casi, e mantenesse regolarmente i contatti con le strutture pubbliche locali, con gli uffici di collocamento, con l'imprenditoria più influente, con case-famiglia, con ospizi, con avvocati, con assistenti sociali e con mediatori familiari per indirizzare al meglio coloro che chiedono aiuto. A onor del vero, in alcuni dipartimenti di salute mentale, pochissimi in Italia – a Trieste, per esempio, là dove la battaglia per la chiusura dei manicomi si realizzò per prima – questo mio auspicio è già stato realizzato in buona parte, quindi non è utopistico.

Ma diagnosticare una depressione e prescrivere la relativa cura farmacologica, in casi del genere, è soltanto deleterio, perché non si vede come i problemi e i disagi dell'ex-imprenditore possano essere risolti chimicamente. Si rischia di creare, oltre al problema iniziale niente affatto risolto – che, non dimentichiamocene, è la disoccupazione, e non la depressione – un ulteriore problema, cioè la dipendenza chimica. I medici prendono troppo alla leggera il fatto che gli psicofarmaci creano forte assuefazione e che dismettere una cura è un'operazione estremamente delicata, che va portata avanti con molta attenzione.

Un altro esempio. Per un paio di mesi ho seguito una squisita signora di 86 anni, sola, invalida, terribilmente orgogliosa e disfattista.

Dottoressa, che vuole che le dica, sono una vecchia... una vecchia da rottamare... ma lei è giovane, che le sto qui a raccontare... la sera, che vuole che faccia, mangio un pezzo di pane, una minestrucola...

La ascoltavo, la osservavo. Indossava sempre vecchi completi lisi, che a loro tempo dovevano essere stati elegantissimi. I suoi capelli erano deboli e radi, ma sempre impeccabilmente acconciati secondo la moda dell'epoca in cui la donna doveva essere stata giovane. Le mani le tremavano, ma un unico, raffinatissimo anello testimoniava la sua distinzione.

Raccontandomi la sua vita, quella donna ha dischiuso un mondo di valori e idee improntati all'orgoglio, alla dignità della solitudine, all'austera e sprezzante sopportazione della miseria. Certamente valori degni di rispetto e di ammirazione, ma a quanto pare a tutt'oggi improponibili, persino inconcepibili, se è vero che l'orgogliosa ostinazione con cui l'anziana signora rifiutava l'aiuto di badanti e assistenti sociali – benché potesse permetterseli economicamente – era stata dai medici inequivocabilmente ascritta a «demenza senile» e «depressione».

Credo che l'ostinato rifiuto della signora fosse per lei l’unico modo, pudico e disperato, per gridare lo smacco della sua esistenza e della sua solitudine. Era come se stesse dicendo: “Guardate, sono sola. Non ho un marito, né figli, né amici, non ho lasciato nulla in questo mondo, e ora me ne vado, altrettanto sola”.

Penso che fosse questo il motivo per il quale l'anziana donna rifiutasse di pagare estranei che l'aiutassero a condurre dignitosamente il resto dei suoi giorni: per lei, con ogni evidenza, era più dignitoso condurli in solitudine, nonostante i rischi e i disagi che ciò comportava.

Il comportamento della signora non derivava dalla depressione, né dalla demenza senile; derivava invece dal suo orgoglio, e da quella disperata richiesta d'amore che aveva rinunciato a formulare apertamente.

La povera donna avrebbe avuto bisogno di qualcuno che la amasse, e che le stesse vicino spontaneamente. Ma questo qualcuno non esisteva, e lei lo sapeva benissimo, altro che demenza senile! Magari fosse stata demente, così non avrebbe sofferto di quest’umiliazione, non se ne sarebbe probabilmente nemmeno resa conto, e allora sì che forse, docilmente, avrebbe accettato di pagare un estraneo che l'aiutasse. Non so in che modo si sarebbe potuto aiutare la signora, forse mandandole a casa giovani volontari, fintantoché lei non si fosse trovata a suo agio con qualcuno di loro e ne avesse accettato la compagnia e il sostegno.

Non lo so, non posso saperlo. Ma di certo so che la cura di antidepressivi, - che le tagliava le gambe e non le lasciava neppure la forza di recarsi in drogheria (così lei) - avrebbero potuto risparmiargliela.

Benché non ne avessi i titoli – ma a riprova del fatto che per svolgere una mansione del genere in pratica sono tutti d'accordo che non servano titoli – spesso i medici mi davano da compilare e aggiornare le cartelle cliniche dei pazienti. Io snobbavo l'orribile gergo medico-scientifico e scrivevo realisticamente. Quando fui alle prese con il caso dell'anziana signora, aggiornai la sua cartella riportando più o meno le stesse cose che ho scritto poco sopra. Se stiamo a vedere, è molto più eziologico parlare di solitudine, di orgoglio e di bisogno d'amore che di «demenza senile» e di «depressione». Quando il dottor Agostinelli lesse il mio aggiornamento mi lanciò un'occhiata significativa. Non stava biasimando la libertà con cui avevo stravolto la compilazione della cartella – Agostinelli è uno psichiatra umano e intelligente - ma nel suo sguardo c'era la volontà di avvertirmi, di proteggermi, come se mi stesse dicendo: “Che vuoi fare? Dove vuoi andare? Stai attenta a dichiarare che hai capito certe cose!”

In quel momento, sentii il dottor Agostinelli vicino e lontano allo stesso tempo. Vicino perché con il suo sguardo aveva appena ammesso che la pensava come me; lontano perché in buona fine mi stava consigliando di continuare a comportarmi istituzionalmente.

(Estratto da: La variabile umana, Eleuthera, 2019. Per gentile concessione della casa editrice.)

1 A differenza del reparto psichiatrico, in cui i pazienti vengono ricoverati 24 ore su 24, il Day Hospital è una struttura ospedaliera organizzata soltanto per il ricovero diurno di quei pazienti che non hanno bisogno di assistenza e di terapie continuative.