Vuoi fare un autoritratto che parli di te?

Sono una delle tante milanesi d’adozione. Nasco in Sardegna in un piccolo paese della Barbagia, ai piedi del Gennargentu e lontano dal mare. Mi allontano dopo la maturità e, passando per Bologna, che ho molto amato, arrivo a Milano, senza mai pensare di tornare indietro, se non in vacanza qualche volta.

E cosa ne è dei profumi e dei colori della Barbagia?

I colori della Barbagia? Non sono particolarmente affezionata ai luoghi della mia infanzia, lo sono alle persone, ad alcune. Alcuni odori e sapori li ho ritrovati in altre parti del mondo... L'odore del mirto a Minorca, ad esempio, del corbezzolo in Giordania... Dei sardi mantengo la testa dura e la tenacia. Qualcuno direbbe testardaggine, ma ci ho lavorato su!

Le tue fantasie…

Quand’ero bambina pensavo che avrei voluto fare l’astronauta o la neuropsichiatra infantile o, poi, più grandetta, la giornalista inviata di guerra. Pensiero questo che mi porterà a Bologna, a Scienze della comunicazione, allora guidata da Umberto Eco. Ho sempre amato molto andare a scuola, studiare, imparare cose nuove: ero affamata di sapere, volevo capire tutto. Ricordo che rimasi sgomenta quando mi dissero che non ci si poteva iscrivere a più facoltà universitarie contemporaneamente.

Da dove scaturisce questa fame insaziabile di conoscere?

Immagino, dal bisogno di poter credere di controllare tutto e per farlo bisogna capire. Nonché dalla difficoltà a fidarsi degli altri. Non sapere, prevede e obbliga alla delega, no? Ma anche su questo ho migliorato moltissimo. C’erano buoni semi però: alle elementari incontro una maestra, Paola, ora cara amica, che fu fondamentale per la piccola Giovanna. La relazione con lei sedimenta un affetto importante, sano, che nel tempo ritornerà. Più che tanti altri maestri, è Paola - e la scuola - a rappresentare per me una tana sicura e fidata.

Intensa questa immagine di Paola/scuola/tana sicura.

Negli anni mi sono ritrovata spesso a pensare che la fiducia nel mondo e nel prossimo che, nonostante tutto, tutte le fatiche, le brutture, mantengo ferma, siano in buona parte radicate in alcuni incontri fondamentali. Paola è certamente uno di questi incontri. Imparo la costanza e la fatica studiando pianoforte. Inizio a suonare a sette anni circa o poco prima e vado avanti per una decina d’anni. Il paesino dove vivevo era lontano dal conservatorio, per cui frequento una scuola privata, prima in un paese accanto al nostro, poi nel nostro. Non ho mai pensato di fare la pianista, per me era nato come un gioco e tale poteva rimanere, ma le fantasie dei miei genitori, specie di mia madre, mi vedevano ‘in carriera’, per cui, dato che il mio maestro riteneva ci fosse la stoffa, l’impegno richiesto doveva essere congruo. Sono grata per l’investimento anche economico che la mia famiglia ha fatto per me: hanno molto stimolato il mio interesse e il mio impegno. La musica classica, comunque, mi ricorda mio padre. Era un grade appassionato. Lo ricordo coi suoi dischi e il giradischi, la domenica pomeriggio ad ascoltare Bach, Beethoven, Schubert, Vivaldi. Forse un po’ la passione per la musica è una sua eredità.

La musica, il pianoforte, anche lì impegno, dedizione, quanto ha risuonato nella tua vita?

Sono una di quelle persone che se sceglie o accetta di fare qualcosa, si impegna molto, al meglio, direi che mi ‘appassiono’. E cerco di divertirmi in quello che faccio. Che sia il lavoro coi pazienti, le docenze, i seminari, la scrittura, il viaggiare (che mi manca moltissimo), ecc. Rispetto allo studio del pianoforte, all’inizio è poco faticoso e facilmente integrabile, al liceo diventa più complicato. Studiavo due ore al giorno pianoforte, poi stavo a scuola fino alle 13.30 e al pomeriggio facevo i compiti, giocavo a pallavolo, frequentavo gli scout. Pallavolo e scout mi hanno insegnato molto sulla vita di gruppo e la cooperazione, sull’impegno e la fatica. Esperienze preziose che ripeterei. La musica e il pianoforte tornano come una risorsa certa nei momenti difficili: durante gli isolamenti per il Covid, ad esempio, passata la fase critica, accompagnano insieme al disegno, le mie giornate. Un modo per innaffiare le aree creative così importanti per chi fa la mia professione di psicoterapeuta.

Te la senti di dire qualcosa in più sulla tua esperienza del Covid? Quali pensieri, quale significato hai dato a questo evento così sconvolgente che ha toccato e continua a toccare l’umanità in tutti i suoi aspetti, sanitario, sociale, psichico, sociale, ecc.?

Ho molto pensato a cosa è accaduto dentro di noi, nelle nostre relazioni sociali, in quelle più personali e famigliari, e cosa è accaduto nelle relazioni con le nostre istituzioni La paura del contagio, dell’infezione, della morte, ci è entrata in casa attraverso gli schermi televisivi prima, e con l’esperienza diretta poi, impattando sulle nostre vite psichiche e ‘concrete’. Ero da subito molto preoccupata di come la nostra società avrebbe reagito alle restrizioni e limitazioni necessarie; così poco avvezza alla tolleranza e all’accettazione dei limiti, sostenuta dalla spinta narcisistica e onnipotente della conquista ad ogni costo e poco propensa a movimenti che hanno come primo interesse il bene collettivo. E, ancora, mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto dentro le nostre case, che se per alcuni sono diventate simili a delle prigioni senza alcuno spazio di fuga e scarica esterna. Le nostre relazioni d’oggetto sono state aggredite da questo eccesso di materiale psichico che non trovava più un luogo altro per depositarsi se non le relazioni famigliari. Così nelle famiglie violente i maltrattamenti aumentano, laddove lo sguardo esterno, che fa da terzo, della scuola ad esempio, non entra più a scorgere i lividi sul corpo e nell’anima.

Torniamo al tuo percorso di crescita, ai diversi tipi di apprendimento, alle diverse esperienze.

Quando sono in terza media o in prima liceo (scientifico, perché era il solo nel mio paese, oltre all’istituto agrario; il sogno del linguistico distava due ore e mezzo di pullman a tratta su strade provinciali: impossibile!) esplode il conflitto nella ex Jugoslavia. Credo fosse il 1993 quando scoppiò la guerra in Bosnia ed Erzegovina fra Croati di Bosnia e bosgnacchi. In quell’occasione mi attivo con alcune altre persone del mio paese, guidati da una signora croata sposata da noi, per l’invio di pacchi di ‘emergenza’. Qualche tempo dopo ci fu l’occasione per alcuni ragazzini che si erano rifugiati a Split, Spalato, di essere ospitati da noi e i miei genitori accolsero la nostra richiesta di accoglierne uno. Arrivò Ivan, un ragazzino undicenne amante del calcio. Insieme a lui conobbi molti bambini e ragazzini, alcuni adulti. Mi rimasero impresse alcune persone e alcuni episodi. Ivan quando si sedeva a tavola si accaparrava subito un pezzetto di pane e lo teneva sotto la mano, al sicuro da chi potesse rubarglielo. Quanta fame doveva avere patito! Quanta incertezza attraversava la sua esperienza reale e psichica! Ricordo un’altra bambina sua coetanea credo, Ivana, bellissima e biondissima con dei meravigliosi occhi azzurri, spenti e tristi. Lei stava a casa di una mia compagna di classe, ma non dormiva da lei, perché da quando la mamma era stata stuprata e uccisa dai soldati nella loro casa, mentre lei si nascondeva sotto al letto, riusciva a dormire solo col sacerdote, tale Don Antonio. Tutte le notti, diceva lui, la bambina si svegliava tra le 3 e le 4 del mattino col letto bagnato. Che dolore sentire quelle storie, che senso di irrealtà e ingiustizia, allora come adesso. Forse è allora che ho pensato di volere lavorare in guerra, per dire cosa accade a chi la guerra non la sceglie, per dire dei morti, ma anche di chi sopravvive, con la mente squarciata dalla violenza impensabile. Forse attraversando questi dedali le mie fantasie sono convogliate nel desiderio di essere una psicoanalista. E, poi, di fare anche la criminologa.

Ecco fare la criminologa, arriviamo alla tua scelta professionale e di vita.

Il desiderio di esplorare il nero dell’universo e i buchi neri che risucchiano tutto, lo posso associare ora alla volontà di esplorare l’inconscio e di cercare di mettere luce e argine al buco nero scavato dai grandi traumi. Il desiderio di trovare le parole per dire l’indicibile, con lingue nuove (il linguistico) o con racconti e immagini dal campo di guerra (anche psichica). Il desiderio e la fiducia di poter lavorare coi miei pazienti e le mie pazienti per trovare parole e immagini per descrivere il trauma e potere, poi, andare oltre. Da questo anche, forse, deriva la mia abitudine a scrivere poesie che hanno la tensione a mettere insieme parole vivide, immagini, emozioni; non di rado con l’intento di rendere descrivibile ciò che è per lo più percepibile.

Avevi quindi deciso di iscriverti a Psicologia?

Approdo a Psicologia casualmente, in un certo senso, ma non ho mai molto creduto al caso. Quando mi trasferisco a Milano, per ragioni personali, decido di andare in Bicocca a vedere come funziona Scienze della comunicazione. Sarebbe stata all’altezza dell’Alma Mater Studiorum di Bologna? Cerco sul sito e mi presento a seguire da uditrice, non ancora iscritta, una lezione di non ricordo cosa, forse qualcosa sui media. Sbaglio aula e nell’aula dove mi siedo si tengono una lezione di psicologia clinica e, poi, di psicoterapia. Fabio Madeddu e Marta Vigorelli mi ‘folgorano’ coi loro racconti di casi clinici, e soprattutto mi colpisce Marta con l’attenzione e il rispetto con cui parla del trauma, della psicosi e della cura. Dico sempre a questi colleghi che è un po’ colpa loro se ho poi deciso di cambiare strada. Seguo ‘abusivamente’, non potendo fare il test di ammissione a quel punto, questi insegnamenti per alcuni mesi e a settembre tento il test di ingresso, sperando di passarlo perché a quel punto non avrei saputo cos’altro fare nella vita.

Mi immatricolo a ormai 23 anni e ricomincio da capo. Studio con piacere e le cose vanno lisce. Triennale, tirocinio pre e post laurea triennale; proseguo con la specialistica (che faccio in un anno invece che due, perché avevo dei crediti extra dalla triennale). Tesi febbraio 2008, tirocinio post laurea e esame di stato in una corsa di 9 mesi, che comunque non mi pesa.

Fare la criminologa, confrontarsi con parti buie, non addomesticate del mondo interno, con quelle “memorie del sottosuolo” che spaventano e urgono di essere accolte e ascoltate, ma anche confrontarsi e relazionarsi con le persone reali che si portano dentro tutta questa sofferenza cosa ha significato per te? Quali sensazioni? Quali emozioni? Come sei riuscita a gestire, ma anche dentro di te, tanta turbolenza?

Con buone guide. Mi sono molto affinata nel tempo a scegliermi le guide professionali. È per il tirocinio della triennale che entro per la prima volta in un carcere. Farò lì il tirocinio pre laurea, il post laurea e uno stage. L’incontro con la violenza e con gli autori di reati violenti, mi aiuta a interrogarmi sul ‘perché’. Su un perché che mi aveva sempre lasciata impotente. Lavoro molto con le persone detenute, sostenuta e seguita da tutor sempre molto attenti, anche agli aspetti emotivi dell’esposizione a tale ambiente, e mi interrogo molto su di me, su quello che poi avrei definito il mio controtransfert. Per molto tempo poi starò lontano dal carcere per rientrarci con un concorso nel 2014. Ora, pensando alle emozioni più frequenti nel lavoro con la violenza credo sottolineerei il dolore della condivisione di alcune situazioni davvero al limite del pensabile, la rabbia il senso forte e fermo di indignazione per gli agiti violenti. L’impotenza davanti ad alcuni rarissimi casi di psicopatia.

E poi la scelta della via della psicoanalisi.

Nel 2008, mi iscrivo alla scuola di psicoterapia, la scelta verso la psicoanalisi si era sedimentata negli anni, non senza inciampi, attraverso studi, letture e le analisi personali. Mi diplomo nel 2012. Continuo a studiare e lavorare e occuparmi delle parti più vulnerabili. Il mio interesse si organizza intorno al trauma, alle relazioni traumatiche, alla cura e al transgenerazionale del trauma e della violenza, di cui è impregnata la vita delle persone con cui lavoro nel mio studio e in carcere, soprattutto per quanto riguarda la violenza.

Con le persone autori di reati violenti il mio è un mandato particolare e specifico che non è quello del sostegno, ma quello di lavorare sul reato per capire come la persona abbia potuto approdare a reati di tale gravità. Spesso ci si ritrova a snodare il groviglio di trame violente, di un passato con radici lontane di generazioni, alla ricerca di un senso, senza perdere mai di vista la gravità di quanto fatto e lavorando perché la responsabilità personale sia chiara e possa essere elaborata oltre la colpa, così da rendere minimo il rischio di recidiva e possibile concedersi una seconda possibilità di vita.

Molte volte nel lavorare con chi è dovuto transitare e sostare recluso in uno dei lager tipo quelli libici mi sono chiesta, vergognandomi per il ruolo della nostra Nazione, di quanta crudeltà noi siamo capaci; l’udire quelle torture scava profondamente il mio tessuto psichico, e mi porta sempre a chiedermi che poco posso fare io per restituire a queste menti deflagrate un senso di speranza nelle relazioni umane. Questo faccio e ho scelto di fare: curare le relazioni, tra le parti di sé, tra la persona di oggi e la bambina o il bambino che fu, tra sé e Altro. Con l’idea un po’ presuntuosa, forse, di aiutare a costruire e poi posare un piccolo mattoncino nel muro della vita di ognuno dei miei pazienti. Non è sempre semplice e a volte le sfide sono molteplici.

Anche il Covid, altra esperienza traumatica, è entrata nella tua vita influendo sulla relazione coi tuoi pazienti.

Gli ultimi undici mesi, dominati dall’angoscia della pandemia, hanno reso tutto molto complicato, ma con ognuno dei miei pazienti abbiamo provato a trovare un modo per fronteggiare quello che accadeva - tra cui la mia malattia e il dramma di avere un’analista malata di questi tempi - e rendersi conto che la vulnerabilità, talvolta, è anche una ricchezza.

Mi sono interrogata per settimane su cosa sia accaduto alle nostre stanze di analisi, ai nostri luoghi sicuri, a come avessero assunto forme e colori diversi senza la presenza dei pazienti, su come il Covid li avesse trasformati, dalle abitudini di commiato, come la mano tesa a stringere le mani dei pazienti, alle operazioni di sanificazione. Le nostre stanze si sono svuotate della presenza fisica dei nostri pazienti, dei sospiri del non verbale, dei silenzi preziosi di condivisione densa di emotività.

La modifica di setting, ha richiesto un ulteriore maggiore esercizio della nostra capacità di mantenere un setting interno rigoroso, mentre era necessaria una grande flessibilità di quello esterno e relazionale. E poi mi sono ammalata e ho visto come tale evento sia entrato a gamba tesa nella relazione analitica. La malattia dell’analista attacca l’idea dell’indistruttibilità dello stesso e attiva angosce profonde di perdita e di abbandono. La costanza delle sedute salta, se il terapeuta non è in grado di lavorare, in un momento di confinamento che le rende così preziose anche per mantenere un senso del tempo che sembra aggrovigliarsi su sé stesso. La storia di ciascuno con le proprie trame traumatiche rappresenterà l’ordito che strutturerà i vissuti. A bocce ferme, questo sarà materiale prezioso per capire aspetti del sé profondi.

E all’analista idem. Anche in questo caso la storia personale e professionale sarà una traccia impercettibile su cui si struttureranno vissuti, pensieri, emozioni. Non è stato semplice gestire il bisogno di tempo per sé: la consapevolezza che questa malattia a differenza di altre è ora fonte di grande angoscia per tutti, pazienti compresi, porta a interrogarsi su quanto sia opportuno condividere coi pazienti e con quali pazienti.

Hai preso linfa dalla bellezza dell’arte: la musica e la poesia: quali pezzi al pianoforte ti veniva spontaneo suonare? E quale delle poesie che hai scritto ti piacerebbe ricordare adesso? Quale ti pare risuonare più da vicino il tuo raccontarti?

Il canone in Re di Pachelbel, poi, adoro Chopin, un preludio in mi minore che suonarono al suo funerale, tristissimo e meraviglioso… Schubert, l’improvviso in sol bemolle… ma anche Bella Ciao, la Resistenza. Le poesie… sono per lo più nate dalle riflessioni sull’effetto del trauma.

Mi commuovono e mi fanno rabbrividire le tue potenti poesie che rendono palpabile la violazione del corpo-mente infantile, ma qui scelgo di condividere Sonno impossibile, dove la devastazione che mi fa piangere e che mi tocca in particolare è la perdita della capacità di sognare… un delitto insopportabile.

Il sonno rimane impossibile
portatore di incubi brutti
di morti efferate di bimbe tradite
di braccia che cedono al peso
del fango che riempie le vene
la vita sognata rubata
la vita per sempre perduta.

Tu lavori a Milano, puoi dire dove e descrivere fisicamente il luogo dove incontri i tuoi pazienti? Quale atmosfera si respira? Quali colori e suoni riverberano nella relazione con loro e in te?

Lavoro in porta Venezia. In una parallela di corso Buenos Aires ricca di colori della cultura eritrea dai profumi invitanti, e dell’Arcobaleno. Ho scoperto essere una zona piena di locali gay. Davvero multietnica e mi piace molto questo.

E del tuo impatto con Milano cosa puoi dire?

Un mio carissimo amico, Simone, un architetto di Brindisi che purtroppo è morto giovanissimo, oltre 15 anni fa mi portò a vedere una chiesetta, vicino al Duomo, famosa per la sua abside profondissima e inesistente. Non sono certa del nome di quella chiesetta, forse, San Satiro. Se guardi da lontano vedi un’abside profonda e molto bella, se ti avvicini cogli che è un effetto ottico e l’abside è inesistente, in pratica. Una meraviglia. Questo rappresenta molto bene il mio impatto con Milano: la scoperta di cose incredibili. Chiaro, ci sono tante anche cose spiacevoli, ma porto viva la sensazione di un posto che ti permette di scoprire e a volte, fare magie.

Sei riuscita a trovare una tana protettiva anche qui?

Ho lavorato a lungo perché la tana protettiva possa essere qualcosa di relazionale, interno e non fisico.

Rispetto al tuo lavoro, Milano ti è “complice” o ti lascia sola? E cioè, rispetto alle persone che incontri ti pare che sia di aiuto o la senti un po’ latitante?

Più che complice direi alleata. Milano è ricca di persone di spessore. Dai miei docenti universitari, della scuola di specializzazione, i supervisori, uomini e donne, soprattutto, di grande caratura. Potrei fare un lungo elenco: Eugenia, Silvia, Nadia, Gabriella, Carlo, Fabio e Marta già citati, Silvia, Isabella, Adolfo… molte donne e di certo ora ne dimentico qualcuna. E poi Milano è internazionale: così come ho avuto pazienti che arrivavano dall’estero per la loro terapia, ho fatto formazioni con docenti e supervisori che arrivavano da oltre oceano. Questa è una grandissima ricchezza. E, comunque, in fondo, io Milano la considero accogliente. Al di là di profonde venature espulsive e razziste incontestabili, rimane una città aperta, soprattutto quando sceglie la guida giusta.