Marta lavora da 15 anni al customer care di un importante gruppo bancario. È brava e sveglia e adesso è la numero due del suo dipartimento. È contenta della sua posizione perché le permette di mantenere il contatto con i clienti allo stesso tempo guidando un'affiatata squadra di persone e gestendo i rapporti anche con il management.

Come per molte persone che lavorano in aziende piccole, medie o grandi, uno dei capi extra-dipartimento di Marta è quello che Robert Sutton, professore di Management e di Comportamento Organizzativo presso l’università di Stanford, definirebbe tecnicamente uno “stronzo”. Sutton ha dedicato una serie di libri a questo tema, tra i quali spicca Il metodo antistronzi. Come creare un ambiente di lavoro più civile e produttivo o sopravvivere se il tuo non lo è.

Ci sono molte definizioni accademiche, ma ecco come il prof. Sutton definisce il capo di Marta: uno “stronzo” è qualcuno che ci fa sentire avviliti, de-energizzati, mancati di rispetto e/o oppressi. In altre parole, qualcuno che ti fa sentire come fossi della sporcizia.

Piericcardo, capo di Marta, ostenta quasi tutti i classici comportamenti da “stronzo”: la insulta, la minaccia, le usa sarcasmo, la umilia, la interrompe, le da delle occhiatacce e la snobba regolarmente.

Inoltre non contraccambia il saluto, non si perita di chiedere come uno dei suoi collaboratori stia in quel momento, sembra completamente noncurante, rapito interamente da sé stesso e se ti parla lo fa solo per criticare.

Erano già le 17:00 e Marta normalmente smette alle 16:30. Trilla il telefono sulla sua scrivania: è il suo capo, che senza troppi convenevoli, le intima di venire subito nel suo ufficio.

Marta comincia ad agitarsi perché teme che anche questo colloquio possa svolgersi rovinosamente come i precedenti. E immagina correttamente perché non appena varca la porta dell’ufficio viene investita da una valanga di insulti e improperi.

“Ma cosa succede qui, mi ha appena chiamato un cliente per lamentarsi, sei la solita incapace decerebrata!”.
“Bugiarda e infingarda, qui se non ci fossi io andrebbe tutto a peripatetiche”, ho sostituito quest’ultimo termine di Piericcardo che era più diretto e volgare per indicare la stessa professione.

Marta racconta quello che era accaduto con il cliente e pur sapendo che non aveva direttamente interagito lei e non si trattava di un errore né suo né del suo staff si prende comunque tutta la responsabilità.

Il capo alzando ulteriormente la voce la caccia in malo modo chiedendole un immediato report di tutta la vicenda con il cliente.

Quella sera Marta finisce tre ore più tardi (non retribuite) per completare il report che invia per email al capo, che lo guarderà solo nei giorni successivi, e se ne va a casa ancora scossa per il trattamento ricevuto.

Veniamo a Sara.

Ha iniziato giovane in una concessionaria d’auto. Anche Sara è intraprendente e brillante e dopo 13 anni le è stata affidata la gestione di 4 concessionarie e la formazione del personale su vendita e comunicazione.

La sua capa, Marisa, ha la proprietà di 17 concessionarie, è molto diversa dal capo di Marta, perché Sara la considera la sua mentore e le è grata perché grazie a lei ha potuto crescere così tanto professionalmente.

Ma adesso Sara sembra arrivata al capolinea, da diversi anni preme con Marisa per poter continuare ad avanzare e ricoprire nuovi ruoli con responsabilità più importanti e Marisa ormai stanca e prossima alla pensione tergiversa e le dice di aspettare perché le cose cambieranno in meglio.

Sara non ce la fa più, a volte scoppia in pianti disperati, vorrebbe quasi andarsene ma 13 anni sono tanti, così come importante è l’affetto che la lega a Marisa.

Due storie molto diverse quelle di Marta e Sara, eppure c’è un filo comune.

Il filosofo stoico Epitteto suggerirebbe: "Prima dì a te stesso quello che vorresti essere; e poi fai quello che devi fare".

Sia Marta che Sara hanno ben presente e delineata la situazione professionale che stanno vivendo ma quello che non emerge chiaramente dai racconti è cosa vogliono davvero. Sì, entrambe vorrebbero un cambiamento da parte dei loro rispettivi capi, e questo è proprio quello che le tiene ancorate alla loro scomoda realtà attuale.

Quasi ogni sessione di coaching che tengo inizia con una domanda sul tipo di: “Che cosa vuoi davvero?”

Sembra scontato, potrebbe pensare qualcuno o forse molti, è chiaro cosa vogliono le persone, se vengono da un coach o se anche solo si confidano con un amico sanno esattamente cosa vogliono.

Lo scrittore Arthur Hlavaty sostiene che: “Il primo segreto per ottenere ciò che vuoi è sapere cosa vuoi.”

Eppure per tanti motivi la cosa non è così definita, le persone si raccontano spesso di sapere cosa volere senza rendersi conto che in realtà non è così, anche solo per il fatto che un obiettivo che presuppone il cambiamento di una persona diversa da noi è un obiettivo malformato e destinato spesso al fallimento.

Nel 1999, John Doerr, ingegnere, acclamato venture capitalist e presidente di Kleiner Perkins, presentò un semplice quanto efficace metodo per fissare e realizzare gli obiettivi chiamato “Obiettivi e risultati chiave” ai cofondatori di Google, Larry e Sergey. Sergey gli disse: "Non abbiamo nessun altro modo per gestire questa azienda, quindi proveremo il tuo metodo.”

Così ogni impiegato di Google ha iniziato a scrivere i suoi obiettivi e i suoi risultati chiave.

Nel 2008, Sundar Pichai, sempre della Google, ha fissato l’obiettivo di realizzare il miglior browser in 3 anni. E ha deciso che il risultato chiave per misurare l suo obiettivo sarebbe stato il numero di utenti, perché sono gli utenti alla fine a decidere se Chrome è un ottimo browser o meno.

Ogni anno si è attenuto allo stesso risultato chiave, il numero di utenti, ma alzandolo. Nel primo anno, il suo obiettivo era di 20 milioni di utenti e l'ha mancato perchè ne ha ottenuti meno di 10. Il secondo anno ha fissato il numero di utenti a 50 milioni ed ha raggiunto 37 milioni di utenti. Il terzo anno, ha ulteriormente aumentato il numero, portandolo a 100 milioni. Ha lanciato una campagna di marketing aggressiva, ha migliorato distribuzione, ha ulteriormente innovato la piattaforma e il software e raggiunto i 111 milioni di utenti.

Marta e Sara non hanno bisogno di coinvolgere 111 milioni di persone, ne basta una: se stesse.

Ho posto a entrambe queste 3 domande:

  1. Se una persona attenta osservasse i tuoi attuali comportamenti al lavoro, quali obiettivi immaginerebbe tu stia perseguendo?
  2. Che cosa vuoi davvero per te, per l’altra persona e per le tue relazioni professionali?
  3. Quali nuovi tuoi comportamenti scaturirebbero dall’aver chiarito il punto 2?

La prima domanda ci porta a vedere l’incongruenza e la scarsa efficacia di quello che stiamo facendo e che non ci sta portando i risultati sperati. La seconda domanda mira a chiarire quello che davvero vogliamo a più livelli, sulla scorta delle Spice Girls che nel brano Wannabee cantano: “Allora dimmi cosa vuoi, cosa davvero, davvero vuoi…” (“So tell me what you want, what you really, really want…”).

La terza domanda, generativa di cambiamento, ci porta a riflettere su come modificare quello che facciamo, in sostanza come e quali cose nuove iniziare a fare, come parlare, parlarci e comportarci in modo nuovo, per aumentare grandemente le chance di ottenere quello che ci sta a cuore.

Per Marta e Sara si stanno aprendo nuovi orizzonti e nuove opportunità, e per te?