Un giorno gli apostoli Natanaele, Filippo e Iacopo scoprono che il loro Maestro Gesù sta facendo le prove di uno dei suoi discorsi nella casa di Simon Pietro. Si trovano nel villaggio di Nahum sulle rive nord-occidentali del lago di Gennesaret. Stanno ritornando da una passeggiata sulle sponde del lago. Il sole cala all’orizzonte prendendo via via sfumature arancione. Sanguina sul cielo turchese. Il cielo e il sole sembrano avere i colori della tunica e del mantello dell’apostolo Filippo.

I tre apostoli passeggiano lungo le rive del lago osservando i pescatori pescare, e gli agricoltori usar pressoi, macine per il grano e le donne trasportare piatti fatti di basalto. Chiacchierano per lo più riposandosi il corpo e la mente, lasciandosi soprattutto andare a fantasie, divertimenti. Iacopo in particolare prende a raccontare a Natanaele e Filippo la storia dell’uomo e della donna che si devono esser accorti per primi dell’esistenza della morte. Lo fa soltanto scherzando un poco. Come dev’essere stato accorgersi di un evento come quello per la prima volta? Il primo uomo e la prima donna hanno fatto progetti di vita eterna oppure si sono accorti presto, proprio come tutti quanti gli altri, che nulla a questo mondo dura per sempre?

“Forse, – dice Filippo mentre si aggiusta una ciocca dei capelli paricollo – osservando le foglie che crescono sui rami degli alberi a primavera quel primo uomo deve aver immaginato che anche la sua donna o i suoi figli sarebbero ritornati: magari ci sarebbero voluti molti e molti più anni che per una foglia o un fiore, ma senz’altro sarebbero ritornati”. “Già, ma forse questo gli ha provato invece che noi esseri umani non abbiamo la grazia dei vegetali. Siamo più simili ad animali, piuttosto” riflette Iacopo.

Natanaele si domanda se il primo uomo e la prima donna abbiano scoperto l’occorrenza della morte prima o dopo aver messo al mondo altre creature – e quale generosità deve essere stata la loro qualora lo avessero fatto prima di questa scoperta tormentosa. “Probabilmente è stato accidentale” ribatte allora Filippo al quale non sfugge che cosa significherebbe qualora lo avessero fatto dopo e così hanno proseguito, gli apostoli, discorrendo ancora per un poco camminando sulla via del ritorno, domandandosi in conclusione quanto grande dovesse essere stato il dolore dell’uomo e della donna che primi tra tutti hanno saggiato l’esistenza della mortalità del proprio compagno o della propria compagna.

Proprio parlando di questo, Iacopo prende anche a domandare agli altri apostoli che passeggiano con lui: “Ecco una cosa che vorrei da sempre chiedere al Maestro, ma ancora non ho trovato coraggio. Come mai quando perdiamo la vita il nostro corpo marcisce? La carne si corrode e mostra le ossa. La pelle si aggronda mentre invecchiamo. Diventiamo scheletro e carne e veniamo attaccati dai vermi. Come mai quando perdiamo la vita diventiamo mostruosi? Perché non ci trasformiamo invece in bruchi o in libellule? Perché il nostro corpo non diventa sabbia colorata?”.

Iacopo racconta di essersi anche domandato quante volte nella vita a un uomo succeda di respirare la polvere che sono diventati i morti. Quante volte la respiriamo col naso, quella polvere? Forse perché la respiriamo facendola entrare nella nostra circolazione sanguigna a volte diventiamo uomini che non siamo? Forse questa polvere si deposita da qualche parte dentro di noi e ci cambia. Prendiamo un poco dell’anima dell’uomo che è stata quella polvere. In ogni caso, prosegue Iacopo, è un fatto l’orrore che ci procura l’aspetto di un corpo senza vita.

Ma anche quando veniamo alla luce e siamo ricoperti di placenta, il cordone ombelicale da recidere, sporchi, arruffati, piangenti, sotto sotto c’è qualcosa in questa immagine che ci repelle. Come mai? Perché il corpo di un neonato non è ricoperto da ali di farfalle e petali di rosa? Come mai quando veniamo dal Signore e finiamo nelle sue braccia, il nostro corpo ci procura queste impressioni? Perché amare i corpi morti la consideriamo una perversione – come non c’è dubbio, Iacopo ribadisce, sia. Forse tutto questo fa solo parte dell’istinto di sopravvivenza e se vedessimo i corpi appena nati o i corpi morti, ossia i corpi che vengono dal Regno del Signore e vanno nella stessa destinazione, se li vedessimo belli, attraenti, forse desidereremmo far finire la vita per entrare il prima possibile in quella dimensione che fa trasformare i corpi in bruchi e libellule, ali di farfalle e petali di rosa? Oppure si tratta di una forma di avvertimento? La morte non è cosa buona, ciò che c’è prima della vita non è cosa buona, non è bello.

Iacopo ha anche pensato che ci vogliono molti anni per togliere la vita a un essere umano oppure ci vogliono le malattie oppure ha pensato che ci vuole molta forza o strumenti molto potenti per togliere la vita a un uomo. Non è un’operazione semplice, che richiede poca energia. Dunque la vita ha un valore e i corpi sono fatti per stare in vita: non è indifferente essere in vita o essere nella non vita.

E si è anche chiesto, l’apostolo Iacopo, se tutta questa forza che ci vuole per estirpare la vita dai corpi degli esseri viventi (la forza che ci vuole per abbattere un albero, la forza che ci vuole per uccidere un leopardo, che ci vuole per schiacciare una formica) non sia segnale anche della sofferenza che questo estirpamento comporta. Del resto anche un oggetto obsolescente fa brutta impressione: una sedia bucherellata dai tarli, un tavolo rotto, un oggetto bruciato. Ciò che si avvia al non essere ha un aspetto d’orrore e sofferenza. D’altra parte gli esseri viventi che assumono un aspetto d’orrore sono sofferenti, sentono e dichiarano d’essere sofferenti. Non c’è indifferenza tra lo stato di vita e lo stato di non vita: il passaggio tra l’uno stato e l’altro non è indifferente e forse questo qualcosa significa. Ci può essere un passaggio dalla vita alla non vita che noi diciamo avvenire non dolorosamente (la morte nel sonno), ma allora questo è il segnale che la vita dopo la vita è uno stato buono?

Forse, Iacopo dichiara ai suoi compagni, il modo come moriamo è l’avvertimento di ciò che ci aspetta dopo la vita. Se moriamo soffrendo significa che abbiamo agito male e la vita che ci aspetta dopo la vita sarà un inferno. Se moriamo invecchiando e non soffrendo significa che abbiamo agito bene e la vita dopo la vita sarà paradiso. Il modo come moriamo però non è determinato da ciascuno di noi singolarmente, ma collettivamente, e perciò, Iacopo afferma, non si può concludere che agendo bene singolarmente si morirà senza sofferenza, ossia che il segnale della vita che ci attende dopo la vita sarà buono e questo suggerisce che forse agire bene singolarmente non basta: rispondiamo anche degli atti del nostro prossimo.

Nel frattempo che così parlano e discutono i tre apostoli imboccano il sentiero verso casa di Simon Pietro non troppo distante dalla sinagoga. Hanno intenzione di bussare alla casa di Simon Pietro, la quale, per la verità, da quando Gesù si è trasferito a Cafarnao, è diventata la casa di Gesù, e lì spesso i discepoli cristiani si riuniscono. Qui Iacopo, Natanaele e Filippo scoprono appunto che il loro Maestro sta facendo le prove di uno dei suoi discorsi.