Le avevano detto mille volte che era perfetta, che conservava il suo candore dietro quel velo nero pece. Allo stesso tempo che ogni donna si racconta attraverso gli occhi, che c'è una vita oltre quel velo, quel muro spesso tra lei e gli altri. Che, in fondo, il nero è solo un colore e avrebbe potuto sceglierne tanti diversi. Le grandi lotte che si conducono dentro se stessi, le guerre tutte personali si alimentano con le contraddizioni, le domande continue di chi ha perso il sonno, di chi vorrebbe sparire, coprirsi, limitarsi. O di chi vorrebbe vivere. Questo non era Shamira, lei aveva già vinto.

Shamira viveva a Kabul. Se provi a chiudere gli occhi e a immaginare questa città forse vedrai solo rovine o almeno questo è ciò che provò a spiegarmi lei, come se volesse prestarmi il suo sguardo per farlo posare lì, dove si era posato il suo. Perché la verità ha bisogno di più occhi. Difficile accettarlo per me che sono nata ad Occidente, abituata a un unico punto di vista, spesso strettamente personale, univoco, ristretto.

Dopo aver chiuso gli occhi, cominciò il mio viaggio. All'improvviso il passato mi si presentò davanti come a chiedere il conto e io finsi di averlo estinto. Shamira si accorse delle mie menzogne ma mi sorrise chiedendomi di proseguire. Mi strinse la mano e confessò che raramente ne aveva sentite di così calde. Sentiva tutto quella donna ricoperta interamente dal velo nero pece, che io amavo paragonare a un fantasma ma era viva come il fuoco che arde e ustiona la pelle. Era viva ed era madre, sorella, figlia, era Shamira. Per farmi perdonare le proposi di pregare, promisi che avrei pregato per tutti gli errori commessi e per i propositi futuri. Scoppiò in una risata che non dimenticherò mai, una risata a bassa voce. Mi sussurrò che stavo delirando e che la preghiera non serve al perdono ma nasce dall'anima e che, quando qualcosa manca, bisogna andarsela a prendere. Mi sembrò una folle. Non potevo credere che stessi ricevendo lezioni di vita da un fantasma.

Dinanzi alla mia perplessità, decise di parlare lei. Omise i soggetti nelle sue frasi, quasi a non voler rimarcare differenze di sesso ed età, volendomi tenere all'oscuro su chi fosse colei o colui che, di volta in volta, entravano nella storia. Erano trame diverse che cominciavano tutte da quella che noi chiamiamo infanzia ma lei ''tenera età''. Shamira fece in modo che io mi perdessi e che, puntualmente, le chiedessi dove eravamo rimasti, se era giusto ripartire. Detestò il mio fare da ''occidentale'', la mia sterile curiosità. Mi rimproverò per non aver preso in mano le redini di quelle vite, preferendo annaspare tra i mille perché e che questa è un'abitudine che a lei non appartiene poiché è il silenzio della riflessione a fornire le risposte. M'invitò ad accoglierle.

Ebbi un forte giramento di testa e pensai di precipitare. Ancora mi sorrise, forse dimenticavo di essere a Kabul, dove la terra crolla sotto i piedi e solo chi abbraccia il cielo sopravvive. Dovevo compiere uno sforzo, l'ennesimo. Forse non pensai al fatto che se anche non potevo identificarla, darle un volto, lei sapeva tutto di me, perché mi aveva stretto le mani. Infatti Shamira non tentò mai di incrociare il mio sguardo. Lo penetrò. Lo sovrappose al suo. Mi fece indossare quel velo e portando nuovamente la mia mano alla sua, mi indicò un luogo, un palazzo che aveva solo due piani e che alcuni operai cercavano di rialzare dalle macerie. La luce era quella di Kabul. I colori, surreali, erano quelli di Kabul. Le chiesi cosa fosse e perché un palazzo distrutto dovesse catturare la mia attenzione al punto da esserne accecata e perché fino alla fine cercasse di privarmi della vista.

Rise, questa volta sonoramente. Mi disse che la luce non poteva accecarmi perché avevo gli occhi socchiusi e, se li avessi aperti, avrei rischiato di vedere le cose per com'erano. Se ne preoccupò. Voleva nascondere a me l'orrore del mondo, quello che chiamò "il buio mercato dell'orrore". Per tutto il tempo in cui fummo assieme, chiamò sempre diversamente le cose. Mi raccontò storie da Mille e una Notte, indossò il velo quante volte lo tolse.