… in realtà io mi chiamo Ricordo. Abito l’albero che continua a crescere, io posso ricordare e raccontare! Conservi ancora il tuo fiore? [1]

Le anime degli alberi sono pilastri che reggono il cielo. Salde e marmoree come matrone dalla natura imperturbabili, ancorate nella terra da rabdomantici serpenti invisibili, ad occhi chiusi s’ergono verso la volta celeste a seguire gli astri con le loro braccia antiche, corna palmate in preghiera; eteree e sospese come korai appena sbocciate levitano nell’aria con la curiosità dei fiori e la vita del primo sguardo incantato al mondo, come piccoli capezzoli vergini, solleticati dalle spighe, respirano.

Pari alle divine statue risplendenti d’oro e avorio erette nei templi, sin dall’alba di tutti i tempi, sono state adorate nei loro boschi sacri, dove sacro è anche il loro segreto, il loro silenzio [2]. Queste anime materne e generose pazientano sul tetto del mondo e offrono i seni da nutrimento e riparo alle creature terrestri indomite e vagabonde, come grosse vacche intoccabili. Sono il midollo della vita; in esse scorre ofitica e ignea l’energia della ruota universale. La donna albero frugifera, latrice di fiori frutti e messi, si rinnova all’infinito e presiede al ciclo delle Stagioni come una “Grande Madre Selvaggia” [3]. Per ogni occasione si trasforma con la veste del ricordo perduto, si traveste di maschere a colori: si spegne con la cera degl’Inverni, si rianima con la delicatezza del precoce mandorlo e la fragilità argentea della fioritura dei ciliegi in hanami, matura al sole con l’oro del grano e l’inchino dei girasoli, sonnecchia bruna e rossa cambiando la pelle e si spegne per poi rianimarsi.

La donna albero è l’incarnazione della Memoria, di un passato a venire, di un futuro remoto: del presente che in perpetuo si rinnova, dal risveglio del giorno al sonno della notte, dall’aurora comparendo, svettando nel meriggio e decadendo al tramonto, di un gioco infinito che si dimentica. Ieratiche come pilastri ancestrali nelle loro cattedrali dagli arcani rosoni, a volte romaniche, altre gotiche, le donne albero appaiono tondeggianti o slanciate, sempre brune di polvere, da corpi di corteccia, dai volti divini e lunari, assorti e sognanti di storie arcaiche da caverna. Sono le originarie anime del sonno, della notte, della morte. Le colonne dell’Anima Mundi sono dunque alberi originali, come il peccato, come l’ossigeno, sono discesa ed elevazione. Madri, sorelle, figlie, sono custodi ancillari di verità taciute, chiuse nei libri che la storia nasconde: i testi non scritti delle viscere che le ore, gli anni, i secoli hanno inghiottito. Sono le anime delle resistenza chiusa in scrigni d’onice e d’alabastro, sigillati con la resina dei cuori sacrificati ai Misteri. Alberi senza nome, gli alberi del sentiero che si perde si dimentica si ritrova e si disperde; i santuari che se ascoltati, diceva Hesse, sono portatori di Verità.

Le donne albero al pianto di Demetra s’accasciano di dolore, sanguinano per la perdita, e muoiono per le urla di strazio, ma rinascono ridenti fanciulline, come ninfe danzanti quando Kore risorge dal regno dei morti. Sei mesi per sei semi rossi da sposa, capsule da regina oppiacea; così fa sotto terra, muore e riposa, per risalire e ascendere al cielo, sgrana i suoi rosari, fila i germogli, fiorisce i paesaggi, quando la madre diventa figlia e la figlia diventa madre, la cornucopia della donna albero è piena del divenire poietico. Il vaso è colmo. Il grembo è pronto…

Eccovi le uova dell’anima albero, l’uovo della nascita, l’uovo della non-nascita, ecco gli anteriori frutti dei trapassi. "Allattatevi" questo è l’invito delle vestali arboree: "Prendete! Mangiate e bevetene tutti". Questo è il corpo, questo è il sangue della donna, la cui anima è offerta dalla terra e dalle acque del tempo eterno. Questo è il fuoco del sacrificio, questa la via, questo il destino… sic et non: sive vita sive mors.

L’essenza della donna albero è mobile, la sua mutevolezza è simile alla natura delle ninfe, angelica o demoniaca, ma più che somigliar a tali spiriti custodi, l’anima dell’albero è come un etere infiammabile sfamato dall’incendio silente dell’immemore perpetuità, inestinguibile senza né principio né fine. La lingua delle donne albero è una fiamma, una frusta che brucia incorporea, la loro voce è una mantica che incanta e che cura.

Figure archetipiche della potenzialità evolutiva, dell’individuazione feconda, della volontà di vita in divenire, sono tuttavia dipendenti, la loro volatilità, infatti, di carattere luminoso quanto oscuro, è ancorata al samsara di metamorfosi, quale mondo fenomenico di apparenze; il velo di Maya nasconde le loro essenze interconnesse nel disegno dell’aiòn, del serpente dalle spire inarrestabili: il Fuoco dinamico della realtà e dell’irrealtà in perenne tensione. Il simbolo vitale della conflittualità degli eventi, del divenire della realtà, del suo essere in atto continuo, che genera gli opposti, assicurando l’armonia universale, che produce energia, che dà vita nella bellezza.

Nelle donne albero il fuoco che s’autoalimenta scorre attraverso i fiumi di linfa; tutto scorre. Tutto in esse scorre per il sangue dalle tenebre alla luce, s’erge in fasci e fili luminosi dalle viscere per ritornarci rigenerato. Driadi nude da impollinare girovagano farfalleggiando; da amadriadi piangono immobili con catene o sbattute dal vento, piegate dagli dei; talvolta in triadi marmoree come Matres di roccia sedute sul trono dei loro piedi di tronco, siedono come in perenne siesta bisbigliando, anziane ciarliere, vecchie comari incomprensibili, portano canestri sul capo, doni ai mortali che amano e odiano disfano piani e speranze. Come Norne si tessono di lino e seta annaffiandosi le gambe stanche d’una rilucente argilla albina. Piccole kodama, bimbe orecchiute assorte a leggere sui rami le linee dello zodiaco, animelle spaurite, accovacciate sui nidi d’uccelli viaggiatori, in tane abbandonate vivono, crescono e muoiono vergini.

Così di notte si sognano le anime dei boschi, così si cantano, così si disegnano le colonne del tempio dei tempi, così gli alberi: donne.

Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita […] e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. […] Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, […] e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.

(Henry David Thoreau, Walden ovvero Vita nei Boschi, 1845-47)

Testo di Emmanuela Brunella Pezza

[1] da Madre Sambuco, H.C. Andersen, 1844-45
[2] Parafrasando Plinio il Vecchio
[3] da Donne che corrono coi lupi, C.P. Estès