Il fado è musica antica di donne in attesa degli uomini lontani nel mare, ascolto densi odori e note. Aspetto che le parole escano da dentro che il pensiero immagini improvviso come un senso il mare davanti a me, ingoio il vento... fantastico su attese ansiose d’inquietudine masticata, di desideri legati. Sono ferma davanti al mare, la sabbia sbriciolata, polvere grossa, modella corpo e volontà. Cresce piano, discreta una piantina mite mentre io fremo per l’intensità. È nata per la primavera ma ancora non invade impetuosa e prepotente il destino di chi le cose le va a cercare e non sa di volerle, guardo quel mare grande davanti, l’acqua e le domande... non ci sono segni nel cielo, attraverso tutta la linea dell’orizzonte come un’equilibrista il suo filo, annuso l’aria, tra tutti i profumi del mare cerco quello di basilico. Sono in attesa, aspetto di vivere vivendo, aspetto un ritorno dal vento, la lenta entrata delle barche in porto, una processione sul tramonto che sa di sardine dentro l’aria d’arancio e di rosso. Terra di anarchia, di mare, di pane salato, di urli per le strade, la mia è una terra che urla, che freme, che gode all’improvviso una bellezza imprevista, sorpresa, mangio il pane che dovrei dare ai pesci per sentirne tutto il sapore.

Pescavamo spesso su un muretto piccolo o sugli scogli uno accanto all’altro bambina e bambino, l’acqua nera sotto di noi era piena di pesci, noi volevamo saraghi piccoli per la frittura, il nonno alle spalle, più distante con la sua grande canna era dimenticato, guardavamo solo il mare e il punto colorato che ci galleggiava sopra, se affondava il pesce aveva abboccato. Era un attimo unico irripetibile dovevamo essere pronti e tirare su: O c’era tutto o niente. Tra noi c’era una gara, un patto di sangue, era così, insieme si perdeva o si vinceva, era una guerra continua che mi teneva lì accanto a lui con un desiderio infinito. Era sulla mia terra come un albero piantato.

È sparito un pomeriggio di primavera assolato morto all’aperto sotto un cielo azzurro mentre intorno a lui c’erano rumori che non so … Niente, è scappato, a volte lo fa, il pesce scappa ed è come se non ci fosse mai stato. Immagino come in un film muto l’incidente… Sarà per un’altra volta, la prossima, posso pescare ancora, metto pane e formaggio sull’amo. L’odore forte non si dimentica. L’ho piantato in un bel vaso, cresce rigoglioso e verde e piccolo, pulisco le foglie con acqua spruzzata, pulisco casa, aspiro, aspiro tutta la polvere, polvere che non vedo perché è buio ma che c’è, calda e invadente soffoca il respiro, copre la bellezza. Pulire è come liberarsi dal male, da quello che sporca perché duole. Quando qualcosa finisce d’istinto nasce la voglia di pulire, pulire e dormire.

Dov’è la mia anima? La cerco tra la pancia e lo stomaco, piano tra i solchi del pensiero e il balletto dei sensi. La mia anima non è politica, ma all’ombra di me, un fungo poroso e leggero che ha succhiato il respiro del bosco e odora vicino alla terra. Sono sola, intorno agli occhi calore, il pianto promette di uscire come uno starnuto, ho le orecchie tappate e i suoni soffocati si cullano. Il nostro mare è calmo sulle incertezze, non spaventa il vuoto intorno, sottile avvolge le anime, anello a pianeti senza nome ne volto; caduta in me non ho forze, non sento i profumi.

È amore un vecchio abbandonato all’ombra di un tiglio.
con un grande sigaro in bocca, spento
e una bambina su uno scoglio accoccolata a cercare granchi e
la tua mano che mi cerca e si posa, disperata.

È estate, la pianta cresce rigogliosa e profumata, colgo mazzetti per farla respirare per lasciare il sole alle foglie sotto… sul tavolo metto le foglie come fiori, è caldo. Lui non c’è, è lontano nel mare. Partito una notte con gli occhi tristi, guardava, un abbraccio lieve per dire qualcosa, per rincorrerci fino a sparire. Quanti saluti come questo, un saluto dentro l’agitazione del mare la grandezza delle montagne la distanza del cielo, sale un saluto come il profumo per disperdersi attraversato dal vento dai voli dalla nebbia. Ferma ad aspettare ascolto il fado, guardo il mare, immagino chi è lontano sopra l’acqua, vicino. Ti penso e questo è tutto. Vorrei la luce di sotto per le foglie appena nate, per i nuovi desideri per crescere insieme al profumo e diventare essenza. Vorrei passare cosi sul tuo corpo nudo, lieve senza tocco, penetrandoti infinitamente.

È amore il respiro sulle stesse parole.
Ho guardato le stanze buie con gli stessi occhi
Nessuno è così vicino alla mia anima,
non posso salvarmi dalla verità e dal coraggio
pur amando la mia paura, coccolandola fino alla fine.

Il mare è calmo, i gabbiani guardiani fanno voli tondi o fermi alla riva guardano lontano, al mio cammino si muovono lenti per la paura. Il ritmo della paura agita e blocca. Dentro c’è un dolore preciso, nello stomaco un morso. Nella notte ho sentito un muro la mia bocca, i denti cemento, abbandonata a me stessa mi chiedo come far passare la mia anima attraverso, come urlare le parole oppure sussurrarle piano facendomi sentire. Né sole né amore dalle finestre e questo può far seccare le foglie anche fuori stagione. Il silenzio batte sulla pelle, mi torna in mente il pesce e l’amo, apro la bocca, sono io il pesce ora, senza respiro fuori dall’acqua.

Le foglie sotto rimangono in ombra e ingialliscono se non tagli i mazzetti in alto, la trasformazione è più forte del respiro, vivente oltre la vita stessa.

Ho sempre avuto paura delle cose che cambiano specialmente quando sono belle, la bellezza vorrei congelarla, non muovere niente, e il fatto che noto che muoia un attimo dopo essere nata, vita più breve delle farfalle, mi fa solo venir voglia di tenerla senza respirare, ucciderla per non concedere ad altri il privilegio. Perché è mia come l’uomo che amo, come il bimbo che cresco …

Colgo e congelo le foglie per l’inverno. L’estate è passata in un soffio, una corsa intorno al vino, al sole, a cene piene di frutta. Comincia quell’aria che prima di raffreddarti ti coccola, quell’odore di freddo che precede, quell’atmosfera intima per la luce che cala... Sono ferma ad aspettare mentre la pelle si scolora.

Il basilico resiste insecchito e giallo, spennacchiato come un bambino povero. Mentre ti penso non so più dove sei, dove è la nostra casa, i sorrisi; scompari, solo gli occhi vedo, misteriosi e umidi cercano ancora un senso e le parole. Vorrei incontrarti di nuovo, riconoscerti ancora e portarti con me. Un mondo di morti, di anime vaganti prepara tappeti di fiori alla vita.

Lascio la pianta fuori, alla natura, alla morte.

Da bambina mangiavo tanto e ingrassavo. Sono nata con fatica, per questo ho ereditato il mio astigmatismo e il modo diverso di guardare il mondo; per la vista debole ho fantasticato, scoperto bellezza… e l’ho rincorsa come una lepre nel bosco, spaventata e guardinga, veloce, pronta a scappare in qualsiasi momento e l’ho cercata ovunque, affamata. Più mangiavo più ingrassavo ed era incontrollabile e non dovevo.

Sta morendo sul terrazzino, il profumo è bruciato dal freddo.

Ricordo di aver visto una barbona raccattare cicche e arrabbiarsi con chi le offriva sigarette intere, ogni vita ha il suo sapore, ognuno un profumo e sentirlo è piacere. Nel vento, come le siepi, respiro, giornata triste di pioggia, aspetto l’inverno che ritarda quanto un amante per farsi bello… immagino, attaccata ai miei amori mai lasciati.

Sono dentro le ore impazzita di solitudine, arrangiata nel dolore, lieve la stanchezza, vorrei un riposo noioso sul quale dondolarmi un po,’ ridere delle forme e della paura, con i pensieri azzerati, a bocca aperta, le mie mani scrivono, come se da questa pazzia potessi uscire con un tramonto un sogno o la miseria, o errare libera dai sensi.

Una rosa, quanto tormento in una rosa, quanti giri e ombre. Amore, quante paure a prendere il volo. Sto nella luce e ho vergogna per desideri osceni, sto nei soli di carne, nella voluttà che accende, sensualità le tue mani nella vibrante bellezza della musica, sottile la gioia, dolore ho dentro un pacco grande per la mia vita, un sogno che è impazzito.

Sola e una strada nuova, accompagno i miei silenzi in giornate tristi per gli abbandoni, ho la mia vita così nuda da guardare e vestire.

Le corse con le biciclette mi vengono in mente come un soffio, avevo sei anni o forse cinque quando cominciai ad andare senza ruote. Ero nelle strade zitte e assolate della solita cittadina sul mare da cui ho preso il vizio di sentire gli odori. Ondina era il nome della mia bicicletta nuova, appena regalata, blu era blu, l’avevo scelta per la sua forma particolare, era diversa da tutte le altre biciclette. Ho imparato a un incrocio tra quattro strade davanti a un fruttivendolo e ricordo quando la strada è diventata una e sono partita storta a destra storta a sinistra e poi via con l’ondina.

L’Ondina era blu, il mare è blu, la notte quando sta per cominciare, la Grecia, le finestre, l’acqua intorno alle Cicladi: vedevo quella terra per la prima volta, la immaginavo antica e l’ho trovata nascosta, sopita, vibrante, coperta di cenere, sotto l’odore del fuoco, un sospiro sui colori, sulle parole, sugli sguardi... Sono arrivata a Milos l’isola dei colori, là dove Venere si era nascosta. Quattro estati fa, una vacanza in Grecia … prima che la musica mi colpisse in testa, dico così ma fu la prima volta che mi ferii da aver bisogno di punti: tre per l’esattezza, una cassa dello stereo mi era caduta in testa: pensai a un segno, a un avvertimento, ancora non so, ma qualcosa si ruppe proprio appena tornata da quel bellissimo viaggio.

Ho voglia di piangere, ingorgo di lacrime nella gola quasi non sento i profumi, sono lontani. Mi piace l’odore di basilico e quello di menta, di timo, di rosmarino, d’estate e di pioggia, la solitudine è continua, mi manca la terra sotto i piedi e la purezza del vento, mi manca il coraggio di staccarmi da te e correre avanti, annego nell’attesa mentre il tempo passa scordandosi di me, della mia presenza.

Voglio tornare a Milos con un amore nuovo.

Leggi anche la Prima parte e la Seconda parte