C’era una volta… Una via parigina cui si era misteriosamente approdati dopo lunga riflessione, senza finzione e con curiosità e fantasia. La stessa via che anni addietro aveva accolto le incertezze diventava a poco a poco lo specchio dell’anima, sicura e leggera. La Rue d’Avron. Un luogo che ha ospitato la mia scalpitante vita in crescita e i miei pensieri. Una ricca via multicolore, dove i profumi e gli odori di mille paesi incrociano lingue e speranze lontane, nate da menzogne o da verità nascoste. Non basta fingere, qui tutto si vede.

Croci e moschee non hanno posto su questa strada intensa e vivace, ma si trovano altrove, non lontane comunque l’una dall’altra. In un’integrazione che fa finta, che si crede furba e scaltra. Nessuno prega più. Almeno non qui. La città dei trompe l’oeil, per tutto. Di tutto. Tanta immigrazione, tante vite e tante storie. Tante bugie indiscrete per cercare di respirare e, in qualche modo, sopravvivere. Tante invenzioni… se davvero lo sono.

Immaginiamo allora una macchina da presa che apra il suo occhio su questa scena affollata. S’incrocia un Burkinabè che si lamenta del fatto che il suo ristorante afgano preferito di non so quale arrondissement ha conosciuto una grave crisi fin dal tristemente noto 11 settembre 2001. Questo monumento alla cucina ha rischiato più volte il fallimento e sopravvive a stento. Purtroppo. L’uomo cammina trascinando i piedi sull’asfalto già caldo di un marciapiede sconnesso, con sandali marroni allacciati da una parte e le dita che escono sfacciate dalla suola soffice, quasi di cartone. Si annoda il vestito giallo e viola per non perdere la fierezza del suo portamento, strizzando l’occhio alla vicina che porta a passeggio un allegro cane maculato.

Con un gesto quasi meccanico apre la sua borsa di paglia per cercare il biglietto della metropolitana timbrato più volte. Mi domando come farà a passare. Prende il bus, invece, salendo le piccole scalette della vettura verdognola dalle porte scricchiolanti che probabilmente lo porterà al mercato. Saluta, lasciando ai passanti alcuni inviti per il ristorante afgano. Ancora una volta è riuscito a passare attraverso le strette maglie della legge, del controllo così ben regolamentato. L’ennesima bugia, dopo l’imbarco clandestino sulla vecchia carretta maleodorante che tanto tempo prima lo aveva portato in Francia.

Si precipita sull’autobus in corsa un altro africano, un camerunense, forse, visto l’accento (ormai li distinguo senza troppe difficoltà). Sventola un giornale dove a caratteri cubitali spicca un articolo sull’immigrazione clandestina e le intenzioni del buon governo francese in merito. L’ennesimo articolista spocchioso, pensa. Quel giornale finirà a incartare l’insalata, probabilmente. O forse nella gabbia del canarino. Questa new entry sul variopinto bus crea un po’ di disordine. Il nostro amico lascia cadere le provviste mentre cerca di fotografare, con un vecchio apparecchio scassato, un graffito tridimensionale dipinto su un muro scalcinato, inciampa in una vecchia e nobile signora dall’elegante cappellino (che ci farà mai da queste parti?), pesta le zampette di un cane accovacciato in un angolo maleodorante. La sua faccia è nascosta dai ciuffi di verdura che spuntano dal grande sacco di carta riciclata che opprime metà autobus. Spuntano solo un cappellino blu e un paio di occhiali da sole. Forse comprati nel foyer all’angolo dove merci di ogni genere - dall’aria un poco clandestina - sommergono il cortile scivoloso pieno di pentoloni di riso. Forse è l’ultima volta che passerà di lì, ne ha le tasche piene. È triste e lancia uno sguardo quasi furioso alle fotografie di caccia allineate sul basso mobile dell’ingresso senza finestre. La porta scricchiolante si chiude alle nostre spalle. Siamo rimasti fuori. Lo spettacolo è finito.

Lo zoom ritorna alla Rue d’Avron, dove un canadese biondo guarda verso il cielo e osserva la scia di un aereo che parte o che torna. Gli piace pensare che quel velivolo leggero torni a casa. S’immagina le attese all’aeroporto, l’accoglienza festosa dei familiari che non vede da lungo tempo e non conosce quasi più. Il canadese entra in un piccolo negozio per comprare un interruttore e una lampadina che servirà a illuminare il suo piccolo appartamento di 15 metri quadrati sui tetti. Così potrà terminare di leggere gli insegnamenti del Dalai Lama. Nella sua giovinezza dai lunghi capelli ricci aveva sempre sognato di incontrare la pace dentro un cassetto accanto al letto, semplicemente aprendolo. Un tascapane appoggiato al tavolo, fatto con cassette di frutta dipinte da una mano esperta emana un profumo di baguette fresca e appena sfornata. Salendo le scale ripide si sbuccia un ginocchio e la giovane e ancheggiante vicina inglese, dall’accento super sexy, accorre in suo aiuto con un rimedio disinfettante della nonna irlandese. Un colpo di fulmine fra i due chiude la lunga giornata. Dietro la porta lasciata alle spalle dell’osservatore indiscreto nasce il nuovo che impedisce di dormire la notte e che secca le labbra. Una candela proietta la sua ombra sul muro.

Il telefono squilla impaziente nell’appartamento accanto. Nessuno risponde. Qualcun altro compone, quasi impazzito, tutti i numeri contenuti nella rubrica del suo cellulare, in cerca di una voce qualsiasi che lo risvegli dall’inganno dell’ex fidanzata. L’insegna colorata di un negozio di ombrelli occhieggia, divertita. C’erano una volta, dicevo, tutti questi personaggi curiosi le cui vite s’intrecciano su un solo marciapiede che a volte sembra fasullo. Storie generate da altre storie, da tante menzogne che hanno oltrepassato le frontiere: promesse di vita migliore, di non discriminazione, di uguaglianza, partenze verso destinazioni promettenti, vita degna, amore.

C’era una volta la parola razza e razzismo. Ci sono oggi fratelli e sorelle. In salita. Ogni favola ha una morale. Almeno così ci insegnavano i nonni. Quale, nel nostro breve racconto? Lascio la risposta a Mohamed, Khaled, Soulef, Xuxu, Luigi, Marc, Alex, Igor e Paz che mi ascoltano a un centro sociale multirazziale di un complesso, affollato e colorato quartiere parigino. E che in fuga dalle bigie dei loro governanti sono passati per le bugie dei loro occasionali “traghettatori” verso quelle dei nuovi paesi che li ospitano. Si parla tanto di clandestini e clandestinità, di fuga dal terrore, di traghetti della speranza e delle tante promesse più o meno mancate. Ma alcune bugie, che trasformino o nascondano la realtà poco importa, sembrano a volte migliori di altre.