La statua dello ‘Spirito Santo’ giunse nella chiesa di San Luca a Galati Mamertino quando emergeva impellente la necessità della rotazione dell’antico asse della “terra vecchia”.

Mentre volgeva al termine il secolo XVI, a Ferdinando Lanza Cardone, quale successore del fratello Girolamo e della moglie Emilia Lanza Alliata, coppia senza figli, furono infeudate terre e baronie con i castelli di Brolo, Ficarra, Galati e Piraino: fu un lascito notevole ma gravoso. Gli antichi castelli e i centri abitati che mostravano con estrema evidenza la loro vetustà infatti prevedevano impegni economici sproporzionati rispetto ai profitti che apportavano [1]. E tuttavia Ferdinando era il barone, era il padrone con onori e oneri.

La terra di Galati (oggi Mamertino) [2] spaziava sovrana sulle montagne dei Nebrodi; il suo castello però portava sempre più evidenti le sofferenze dell’antichità edilizia saracena e il tessuto urbano ormai urlava l’inconsistenza di quell’asse della ‘terra vecchia’ teso fra le due porte: un percorso che, prolungandosi nelle direzioni del territorio, aveva a occidente la via del mare e il collegamento con Longi, a oriente la strada per Tortorici: si costituiva così una linea ideale di congiungimento fra le chiese di Santa Caterina, San Luca, San Sebastiano (poi della Madonna del Carmine), Santa Maria Odigitria (poi di S. Rocco) e del Rosario”, sottolineando all’interno del paese la direzione delle porte [3] .

Vuoto storico, per carenza documentale, vi è ancora per larga parte della vita della comunità della “terra vecchia”, mentre per la collocazione delle due “porte” abbiamo ormai nozioni orali concordanti, pur se, sul percorso delle mura almeno sino a oggi, nessun antico manoscritto probante è ancora emerso. Tuttavia, esaminando i nomi dei quartieri tramandati dal manoscritto dell’Anonimo [4], redatto all’inizio del Settecento, la cinta muraria doveva certamente recingere quelli chiamati Piano Porta, Serro, Ruttigghiu, SS. Salvatore (già San Martino e poi del Rosario), San Marco, Panetteria, San Sebastiano, Castello, Fùnnicu vecchiu, Praiu, San Pantaleo (SanPanti), Rrisuttana e Porta Grande (o Santa Caterina). Questo percorso, che abbraccia pure il quartiere san Marco, porterebbe la cinta muraria a ridosso dell’attuale Vico abate Crimi: sull’area, oggi coperta dal fabbricato con il numero civico 4 (inteso Al palmento), sino all’abbattimento delle mura e del ‘quartiere San Marco’ vi era la chiesa dedicata a questo Santo. Scrive Martines: Lo sviluppo della città baronale ha attenuato il senso e il disegno della «terra vecchia», con la demolizione delle mura e del quartiere di San Marco, e con la successiva costruzione della Piazza Nuova nel quartiere del ‘piano’ a meridione; la nuova piazza ha cosi ruotato l'asse della «terra vecchia», privilegiando i percorsi dalla nuova Matrice [5] verso il castello. Al centro delle mura, infine, era la sede dell'Università, che riuniva insieme i simboli laici del pubblico governo, la loggia del banditore e l'orologio. Nel quartiere dell'Orologio era la corte antica di questa Università et vi aveva un'altissima torre rotonda, di cui adesso rimane un solo muro, d'onde hoggidi si promulgano i bandi civili e criminali per essere luogo eminente [6] .

Sino alla fine del secolo XVI, quindi, la struttura della comunità era ancora quella impostata dal gran conte Ruggero e i riti religiosi erano quelli della “terra vecchia”: la relazione ad limina di mons. Antonio Lombardo [7], del 1594, tramanda già la nuova chiesa baronale dedicata a S. Maria (oggi Assunta) come ‘parrocchiale’ ma specifica che ve ne sono altre tre, sotto i titoli di S. Luca, S. Caterina e SS.mo Salvatore (già S. Martino), cioè le ultime due prossime alle porte e quella di S. Luca che era la chiesa di maggior prestigio; la relazione tramanda pure che le confraternite dei laici sono queste, cioè: una sotto il titolo di San Pantaleone, l’altra di San Marco, l’altra sotto il titolo di San Sebastiano i cui proventi appena bastano alle spese. Si era, insomma, ancora in piena “terra vecchia” ma … con fermento. Era accaduto infatti che nel 1539 per l’antica chiesa di San Luca, sulla piazza sottana, era stata commissionata un’opera marmorea monumentale – si disse poi michelangiolesca – a uno scultore di Palermo:

Il giorno 7 del medesimo mese di ottobre XIII ind. 1539.
L'illustre maestro Aurelio Basilicata, scultore in marmo, cittadino di Palermo, presente davanti a noi, spontaneamente promise e convenne e si obbligò solennemente e si obbliga al nobile Sebastiano de Fusto della terra di Galati, economo e procuratore parrocchiale della chiesa chiamata Spirito Santo della stessa terra di Galati, presente e stipulate, di scolpire, lavorare e intagliare bene diligentemente e artisticamente la predetta figura del detto Spirito Santo
[8], in tutto rilievo, e con i seguenti personaggi, cioè: il Dio padre di nove palmi di altezza e il Cristo Crocifisso con la sua croce, che sta in grembo al predetto Spirito Santo, di cinque palmi di altezza, con la sua palombella e col suo sgabello ai piedi, sopra il quale sgabello vi sia una montagnola proporzionata, dove possa posare la croce e sul detto sgabello di scolpire a mezzo rilievo, e con quell'altezza che potranno venire quattro personaggi in ginocchi, di marmo di buona qualità e perfetto bianco e scintillante e privo di brutte venature …[9].

Nel corso della seconda metà del secolo XVI l’edilizia civile ebbe una nuova impronta, a seguito della rotazione dell’asse della “Terra vecchia”; infatti chi si avventura nel contesto delle realtà comunali della valle del Fitàlia, non solo quindi a Galati Mamertino, con ben fisse nella mente le date canoniche apprese sui libri di testo di storia, arte, architettura, non può non restare spesso interdetto davanti al totale sconvolgimento delle nozioni faticosamente incasellate: la trama culturale rilevabile in tali centri periferici - lontana dalla scuola originaria urbana (Roma, Firenze, Venezia) - è sfalsata spesso di decenni o anche di secoli [10].

Avviene così di imbattersi in belle realizzazioni rinascimentali la cui nascita risale certamente ad epoche nelle quali già a Roma o a Catania, a Noto o a Modica era in pieno fulgore il barocco; ovvero di ritrovarsi ad osservare una serie di componimenti - nient’affatto ignobili! - ove la frammistione di stili diviene quasi inesplicabile, ove non si tenga conto della mobilità delle maestranze che, operanti in grandi città e sotto la guida di insigni architetti, al termine dell’opera erano costretti, dalla mancanza di altri lavori, a rientrare in patria. Qui però non tornavano da sprovveduti muratori, mastri d’ascia, o vili fabbri, bensì da “artigiani” che avevano visto e assimilato tecniche inusitate e, per il tempo, d’avanguardia. Ed ecco che dal committente del luogo, colui che era partito da semplice “mastro”, veniva promosso sul campo “architetto”.

Se costui aveva bene appreso la lezione - e non era infrequente! - e se tale nuova trama architettonica persuadeva in loco, era possibile la realizzazione di un’opera pura, ma nello stile appreso già da qualche decennio e probabilmente già vetusto. Poteva ancora accadere che la committenza avesse del materiale di “riuso” che non intendeva mandare a male: l’economia innanzi tutto! Quale altra logica spiegazione potrebbe essere data a una chiesa in stile rinascimentale, con elementi aragonesi e una cupola bizantineggiante, costruita alla fine del secolo XVI? E come si potrebbero altrimenti spiegare tante guglie coeve ma tutte totalmente differenti (piramidali o a pinnacoli, rotondeggianti o con ceramiche a smalti variopinti), presenti nei tanti centri della Val Demone?

Fu in quel tempo e nel corso di quel lavorio che a Galati Mamertino, di fronte al nuovo palazzo baronale, era stata portata a termine l’edificazione della chiesa di S. Maria (oggi Assunta), nuova parrocchiale (1575) e per di più baronale. È probabile che questa chiesa, nuova venuta nel campo della religione, non fosse stata gradita dal parroco del tempio di San Luca, don Giacomo Bianco [11], nella quale già da tempo sull’altare maggiore troneggiava l’imponente statua marmorea della Trinità. L’idea che la sua chiesa avesse ancora la modestia, proveniente dai secoli passati, in un sogno deve averlo fatto sobbalzare e decidere di non subirne l’onta. Don Gaetano Drago molti anni dopo quindi potette immaginare quel travaglio [12]: [Il tempio di S. Luca] sorge ai piedi del Castello; è il rifacimento, in proporzioni maggiori, della piccola Chiesa esistente entro la cinta della vecchia Terra. Fu rifatta splendidamente alla fine del secolo XVI dal parroco Don Giacomo Bianco «qui, erecto tempio, ducentum uncias Ecclesiae donavit» con testamento dell'otto Luglio 1612, in cui disponeva che, delle duecento onze, cento dovessero servire per il mantenimento di una Collegiata di dieci Sacerdoti, quaranta per la manutenzione dell'edifizio e sessanta per opere di beneficenza. Siccome la Chiesa non era finita quando morì Don Giacomo, si occupò di portarla a termine il suo congiunto Don Annibale Bianco che fu sepolto in una Cappella della navata di destra, nel sarcofago di marmo rosso, che porta la seguente iscrizione: ANNIBAL HOC JACET IN TUMULO COGNOMINE BIANCO / IN TERRIS DIVES DITIOR AT IN COELO [13].

Così nella nuova e fastosa chiesa tornò a trionfare sull’altare maggiore la statua della Trinità. Chiesa superba per concezione e monumentalità, ebbe al suo interno, fra le altre pregevolezze architettoniche, la cappella della Natività che il Martines [14] descrive come "un'enciclopedia di riferimenti del tutto diversi, che formano il programma dei rilievi, composti in un'architettura ispirata alle cappelle laterali della chiesa palermitana di San Giorgio dei Genovesi, cominciata nel 1576 dal piemontese Giorgio di Faccio. È un arco trionfale, eseguito in pietra dolce, con tracce di policromia a stucco in giallo, grigio, rosso e oro [15]; sul fregio si snoda un animale marino, serpentiforme e squamato, con zampe da uccello, pinne piumate, una lunga coda terminata in cornucopia, che nuota in un mare di girali ove emerge in un cartoccio la data 1631. Altri animali fantastici, sirene alate con zampe di leone e leoni con teste d'aquila, popolano i rilievi dei pulvini nell'imbotto dell'arco. Allo zoomorfismo medievale si contrappongono le grottesche delle paraste, tratte piuttosto dai modelli ornamentali dei giardini, e i putti dei pulvini che in Sicilia rimontano alla plastica di Domenico Gagini; infine le maschere disposte sull'abaco dei capitelli rievocano gli ordini architettonici di ispirazione antiquaria, diffusi un secolo prima nei dipinti di Cesare da Sesto, Girolamo Alipranti e Stefano Giordano".

Le chiese, come descritte nel 1594 da mons. Antonio Lombardo (ma non più parrocchie), giunsero integre sino al 28 dicembre 1908: in questo giorno il terremoto detto “di Messina” le ferì tutte ma azzoppò definitivamente la chiesa di San Luca. Nei primi anni 30 del secolo XX la statua della Trinità dovette lasciare il suo vecchio tempio sontuoso per adattarsi a una nuova collocazione: l’altare maggiore del transetto di destra della chiesa di S. Maria Assunta, ormai unica chiesa parrocchiale. Ancora fanciullo, ricordo le vicissitudini di quel trasporto che mise a dura prova gli artigiani del tempo, i quali riuscirono a esporlo nel nuovo sito ma non poterono evitare qualche danno, pur se marginale.

Il trambusto che provocò la traslazione del secolo XX richiama alla mia memoria le lontane traversie del tempo nel quale, in quel 1539, fu commissionata e poi realizzata l’opera michelangiolesca, detta impropriamente “lo Spirito Santo”. Intanto era accaduto che l’illustre maestro Aurelio Basilicata, scultore in marmo, cittadino di Palermo, non si fosse dimostrato né ‘maestro’ e men che meno ‘illustre’; infatti nell’atto notarile del 7 di ottobre si specificava: … Per questo, invero essendosi obbligato il maestro Aurelio e per le sue preghiere verso il predetto nobile Sebastiano, presente e stipulante in proprio nome come sopra, nel rispettare e nell'osservare tutte le cose sopra dichiarate, in quel modo, forma e termini, di cui sopra, di restituire l'altro denaro ricevuto, e di pagare i danni, gli interessi e le spese, l'illustre maestro Francesco la Basilicata, suo fratello e cittadino palermitano davanti a noi presente, spontaneamente s'impegnò e si dichiarò fidejussore e principale curatore e restitutore, per altri rispetti pagatore e debitore, rinunciando di convenire in giudizio…

Aurelio però, trovatosi davanti quel blocco di marmo, sembra non riuscisse a capire come poterne tirare fuori il “Dio padre di nove palmi”. Vi studiò qualche anno e v’è da giurare che molte delle sue notti furono insonni; alla fine sentì la necessità di dovere restituire il denaro con spese e interessi, che probabilmente non aveva. Chiamò in aiuto suo fratello, “l’illustre maestro Francesco Basilicata”, per davvero illustre e maestro, che per lui spontaneamente si era impegnato e dichiarato fideiussore. Questi, che forse aveva già troppo lavoro di suo, non volendo mancare alla parola data, si adoperò al fine di trovare un artista in grado di affrontare l’opera. Così il 22 novembre 1543 si potette stipulare il nuovo contratto [16]: Il nobile Antonino de Gagini, cittadino palermitano, scultore di marmi, presente davanti a noi, spontaneamente promise convenne e solennemente si obbligò e si obbliga verso l'illustre maestro Francesco Basilicata, suo concittadino, presente e stipulante, di fare, di scolpire, o più veramente, come si dice, di finire due figure incominciate, cioè una figura dello Spirito Santo col suo Crocifisso, come è incominciata la stessa figura e di quella lunghezza e larghezza, come al presente è incominciata e l'altra figura di un angelo [17], anche come è stata incominciata, la stessa figura dell'angelo della larghezza come è al presente, e di scolpirle bene e diligentemente e magistralmente, come si richiede …

Così sistemate le cose, Antonino Gagini affrontò con l’abituale serietà e competenza l’incarico davvero impegnativo di portare a termine in un mese quanto Aurelio non aveva saputo fare in tre anni. Infatti dovette iniziare a lavorare il giorno 26 e continuare nei seguenti giorni fino alla fine delle due stesse figure, purché per la festa della Natività del nostro Signore Gesù Cristo prossima ventura siano e debbano essere finite e di fare uno sgabello nella figura dello stesso Spirito Santo, il quale sgabello deve essere di un palmo di altezza, come sarà e di più se di più possa venire; nel quale sgabello lo stesso Antonino abbia e debba fare quattro altre figure, o come si dice personaggi di mezzo rilievo, di grandezza secondo la proporzione di detto sgabello, cioè una figura della Vergine Maria di Loreto, un'altra figura di San Luca e altre due figure o personaggi genuflessi, cioè un uomo e una donna, ben viste dal nobile Antonino, purché siano là in proporzione dello stesso sgabello e di fare anche quelle bene e diligentemente e magistralmente, come si fa in simili casi, e con marmi dello stesso maestro Francesco, eccetto il suddetto sgabello, perché lo stesso nobile Antonino è tenuto a prenderlo dai suoi propri marmi, e di farle e di incominciare dal detto giorno ventisei del medesimo mese e di continuare e finire come sopra, e di consegnarle tutte nel magazzino della maggior Chiesa (Duomo) di Palermo, dove al presente le dette statue sono …

Tutte queste condizioni Antonino Gagini puntualmente seppe rispettare e attese il committente o uno dei due Basilicata affinché avessero ritirato l’opera. Ma ancora nel mese di aprile del 1544 le statue erano ferme nel magazzino del Duomo [18] e lo erano ancora nel successivo mese di maggio. Fu così che la parola tornò al notaio. Aurelio e Francesco Basilicata dovettero intimare l’esigenza del ritiro delle statue al committente, il nobile Sebastiano de Fusto [19]: questi venne avvertito, davanti al magnifico Parisio di Amedeo e il nobile Antonino Gagini e il nobile Vincenzo de Chulla, che essendo trascorsi i sei giorni e non essendo stato ritirato quanto fissato dai contratti, il manufatto rimaneva nel magazzino a suo rischio e pericolo. Ma a sua volta il nobile Antonino Gagini avvertiva il maestro Francesco Basilicata, stipulante e fideiussore, della necessità di ritirare o fare ritirare le statue, che rimanevano comunque in deposito a rischio, pericolo e sorte delle stesso maestro Francesco per qualunque cosa per caso càpiti e non altrimenti, né in altro modo.

Per il nobile Sebastiano de Fusto era stato molto facile firmare la commissione a Palermo nel 1539 ma gli dava ora pensiero trasportare sino agli 850 metri s.l.m. quell’immensità, resa ancora più mastodontica dal contenitore ligneo posto a protezione della statua. E gli dava pensiero pure quella frase che lo scultore aveva scolpito sul lato sinistro della base ottagonale del gruppo scultoreo: NON FERETIS ME SINE ME. La frase diede la febbre al povero Sebastiano ma, alcuni secoli dopo, stimolò pure la curiosità di p. Gaetano Drago che nel suo libro [20] così interpretò: Che cosa ha potuto indurre il Gagini ad allusioni così esplicite? E' molto probabile che il committente, andato a vedere il gruppo in via di ultimazione, abbia espresso allo scultore il suo imbarazzo circa il trasporto di quella enorme mole alla sua destinazione montana e impervia: “Senza un miracolo questa statua non potrà salire a quell'altezza”. In quei secoli di viva fede in cui gli artisti erano profondamente cristiani, è facile che il maestro Antonino gli abbia bonariamente risposto: “ E perché no? Il Signore che ha fatto trasportare dagli Angeli la Santa Casa dalla Palestina a Loreto, non può forse far trasportare il Suo simulacro fino alla cima della vostra montagna?” È di là probabilmente l'idea di scolpire nello zoccolo la traslazione della Santa Casa e di incidervi quella frase impegnativa che fa dire al Signore: “Senza la mia mano non riuscirete a trasportarmi”.

Certo che il mastodonte, posto sull’altare maggiore della vecchia chiesa di S. Luca, passato il ricordo delle generazioni, dovette impressionare i nuovi fedeli al punto che, non avendo cognizione degli antichi avvenimenti e scomparsa la pista ch’era servita per il trasporto e riferendosi alle allusioni dello zoccolo, avallarono la fantasia che fosse stato ‘naturale e sicuro’, per il trasporto, l’intervento degli angeli. L’intimazione di Francesco Basilicata per il nobile Sebastiano de Fusto era ormai perentoria; rimaneva solo di trovare il modo come risolvere il problema. Per fortuna l’Archivio Statale di Palermo è ancora - come è stato in precedenza – fonte inesauribile. Lì, Drago [21] trovò il documento nel quale si tramandò l’impossibile itinerario che doveva condurre il gruppo impropriamente chiamato ‘lo Spirito Santo’, ma che rappresenta le tre Persone della SS.ma Trinità, a Galati Mamertino; ma trovò soprattutto che non fosse il de Fusto, bensì fossero i Basilicata, a doversene occupare. Sappiamo così [22] che all'ultima ingiunzione perentoria dello scultore (cioè Antonino Gagini), il maestro Basilicata era arrivato a una soluzione, una soluzione grandiosa, di cui parlano i documenti che si conservano negli archivi di Palermo come di cosa straordinaria anche per quei tempi in cui non si badava a spese e si emulavano il fasto e la grandezza dell'Antica Roma. I documenti dicono che il Basilicata fece attrezzare un barcone da trasporto su cui il gruppo viaggiò via mare da Palermo a Torrenova. Là fece costruire un'enorme «scivola» con tre grossi tronchi d'albero, una specie di slitta gigantesca a forma di A maiuscola, con la punta in avanti, coperta da un buon tavolato su cui fu deposto il gruppo; vi fece attaccare parecchie paia di buoi [23] e cominciò la lenta ascensione preceduta da una squadra di guastatori che man mano aprivano una trazzera, appianando il terreno, frantumando rocce con le mazze, abbattendo alberi e decimando vigneti e oliveti. Non si sa quanto tempo sia durata l'eroica fatica, ma il gruppo arrivò intatto a destinazione e pote’ essere issato al suo posto d'onore.

A fare compagnia a questa travagliata “Trinità”, altre opere dei maestri Gagini ornano gli altari galatesi, prima fra tutte la Madonna della Neve [24] di mano di Antonello; senza dimenticare però che importanti opere lignee, come il San Sebastiano, di scuola fiammingo-renana [25] e il Crocefisso di scuola di frate Umile da Petralia (è ancora sub judice la definitiva assegnazione autografa al Frate) [26] , nonché un notevole numero di oli su tela di scuola conchesca, sono sopravvissute al trascorrere dei secoli. Ciò ha consentito al comune nebroideo di entrare degnamente nel novero dei comuni d’arte italiani: nel 1981 Galati Mamertino fu una dei dodici paesi prescelti per il volume 8 della Storia dell’arte italiana edita dalla Einaudi. Le opere, che ancora ornano il comune, furono commesse di rilievo volute da famiglie di antiche tradizioni. La prima – e unica per Galati - opera Antonelliana sopra citata, fu voluta da don Blasco Lanza, membro di una “famiglia tra le più prestigiose dell’isola il cui feudo, di antica e consolidata investitura aragonese, comprendeva vasti territori sui Nebrodi da Brolo sulla costa, a Galati nell’entroterra” [27].

Né voglio dimenticare che questa ricchezza è completata da una importante collezione di paramenti sacri, opera delle Suore Clarisse che, dal ‘600 e sino alla soppressione delle Case religiose, lasciarono alla Comunità manufatti di altissima qualità [28]. Tanti sono i centri siciliani che possano vantare ricchezze artistiche simili e tutto potrebbe essere valorizzato da una sana e retta politica: forse quando gli abitanti dell’isola si scrolleranno di dosso il “vezzo” della regione a statuto speciale, che mi sembra abbia fatto perdere ai suoi abitanti la smania operativa, probabilmente ritroveranno l’antico anelito verso il gusto del “creare lavorando”.

Note:
1) Salvatore Cucinotta, Popolo e clero in Sicilia nella dialettica socio-religiosa fra cinque-seicento, Messina 1986, pp. 30-31 e 30n.
2) Per le notizie generali sul paese si vedano: G. Drago, Galati Mamertino e la Calacte di Ducezio, Roma 1959; G. G. Martines, Galati Mamertino, Storia dell'Arte Italiana, vol. 8, Einaudi ed., Torino 1980, pp. 365-404; V. Valenti - M. L. Valenti, Galati Mamertino nella storia di Sicilia,1984; S. Fabio, Galati Mamertino, un itinerario artistico-culturale nel cuore dei Nebrodi, S. Agata Militello, 1999; C. Ipsale - A. Pettignano, Religiosità galatese, Messina 1986; S. G. Vicario, Un paese in montagna, 1973, 1981, 2002 ; Id., Arte a Galati Mamertino nel XVII e XVIII secolo, 1973; Id., Galati Mamertino nel Parco dei Nebrodi, 2005; Id., Da Chala’ad a Galati Mamertino, 2012; Id., (a cura), Quaderno Mamertino 2009; ; Id. (a cura), Quaderno Mamertino 2010. E pure http://wsimag.com/it/travel/8774-sui-monti-nebrodi
3) Giangiacomo Martines, cit., p. 380.
4) Biblioteca comunale di Palermo, ms Qq D 85/15.
5) La chiesa di Santa Maria Assunta, già chiesa baronale.
6) Martines, Ms cit. [p. 37].
7) Arch. Segr. Vatic., Congregazione del Sacro Concilio – Relationes ad limina, mons. Antonio Lombardo, arcivescovo di Messina, anno 1594 (tradotta da Salvatore Ruggeri), in C. Ipsale-A. Pettignano, Religiosità galatese, p.15-16 e 15n.
8) È molto curioso che il blocco marmoreo della Trinità sin dalla stipula del contratto e sino al periodo della mia infanzia nel paese era comunemente inteso “lo Spirito Santo”. Solo nelle monografie moderne si è dato il nome corretto “Trinità”.
9) Vicario, Arte a Galati …, cit, p. 160; Arch. de’ notai defunti di Stato in Palermo, dal vol. 2721 delle minute del notar Giovan Francesco La Panittera, a. 1535-41, Ind. IX-XIV, f. 6 e sgg; i documenti notarili furono riportati in quest’opera citata nel testo latino notarile con (cortese) traduzione in lingua italiana a fronte della prof. Sira Del Campo.
10) Martines, G., Periferia artistica, in Celona, G. (a cura), Storia dei Nebrodi, Marina di Patti 1987, 235-37
11) Per le notizie dinastiche della famiglia Bianco cfr. Vicario, Galati … cit., 2005, p. 131, 103n
12) Drago, cit., p. 116.
13) ‘In questo tumulo giace sepolto Annibale Bianco /Che fu ricco in terra, ora più ricco in Cielo’.
14) Cfr. Previtali, G., La pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame, Torino 1938.
15) Martines, cit., p. 387. La consuetudine di dipingere gli elementi architettonici in pietra, adottata anche per le opere in marmo bianco, fu praticata fino a tutto il XVIII secolo; la dipintura costituiva un’efficace protezione per le opere esposte all’aperto, conferendo artificiosa ricchezza alle architetture.
16) Arch. de’ notai defunti di Stato in Palermo, vol. 5306 De’ bastardelli, di notar Giovanni Starrantino, (a. 1544-54, ind. II, f. 254, retro a 256) in Arch. di Stato di Palermo.
17) Per la figura dell’angelo cfr. Vicario, Galati Mamertino nel parco..., cit., 2005, p. 98, 43n.
18) Arch. de’ notai defunti di Stato in Palermo, vol. 4794 delle minute di notar Giovanni Andrea De Nasis, a. 1542, . in Arch. di Stato di Palermo.
19) Arch. de’ notai defunti di Stato in Palermo, registri del notar Alfonso Cavarretta, a. 1544, n° 1802, f. 670, in Arch. di Stato di Palermo. A seguire con gli stessi dati vi era l’ingiunzione al ritiro al de Fusto da parte di Antonino Gagini.
20) Drago, cit., p. 129 sgg.
21) Ibid.
22) I documenti da me visti e pubblicati in Vicario, +Arte …, 1973, non indicano nei fratelli Basilicata l’obbligo del trasporto del manufatto sino a Galati; il documento visto da p. Drago lo dà per certo.
23) Mio nonno Lapinta, che non credeva all’intervento degli angeli, mi diceva che erano sempre pronti all’utilizzo otto paia di buoi da tiro che venivano alternati, quattro per volta, quattro volte nella giornata.
24) Vicario, *Arte …
, 1973, p. 111 e fig. 54; Martines, cit., p. 394.
25) Vicario, 1973, p. 111; Martines, 1980, p. 381 e segg; scheda di Francesca Campagna Cicala, in G. Cantelli (a cura), Le arti decorative del Quattrocento in Sicilia, Roma 1981, p. 114.
26) Vicario, Statua in cerca d’autore: il simulacro del Crocefisso, Quaderno Mamertino 2010, pp. 6-11; Id., Da Chala’ad a Galati Mamertino, contributi alla storia di Sicilia, 2012, pp. 76-84.
27) Martines, cit., p. 394.
28) Vicario, Galati Mamertino …, cit., 2005, pp. 184-185.