Si fa strada, tra i meandri più bui, una piccola luce che di flebile ha ben poco e di piccolo ha solo una dimensione a cui siamo avvezzi perscrutare con i nostri sensi. Si fa’ strada: coscienza.
Non si potrebbe chiedere di più alla mia penna, spada brandita all’ombra di antichi avi tale da, donando a voi, donare a me, quel vero è proprio coraggio, status di coscienza.
Apparirebbe, nell’immediato, circuitare i sensi fino a sfinirli in una sorta di corto animale, tale iniziale approccio; nell’avanzare, con il coraggio di un intelletto fattosi cuore e viceversa, comprenderemo, comprenderò con voi, che così non sia; anzi, magnifica alba va affacciandosi senza più alcun timore reverenziale verso la polvere e le bigotterie potentate dei Secoli.
Alla voce coscienza o, in letteratura antica, consciènza e consciènzia, in quel cane a tre teste, fulgido fulgido guardiano della cultura italiana, troviamo descritto: «Consapevolezza che il soggetto ha di sé e del mondo esterno con cui é in rapporto, della propria identità e del complesso delle proprie attività interiori» e ancora «Consapevolezza del valore morale del proprio operato, sentimento del bene e del male che si fa». Tale da far riportare i versi del Sommo:

O dignitosa coscïenza e netta,
Come t’è picciol fallo amaro morso!

e nel mentre che scrivo e conduco, la candela al mio fianco trasforma, in un verso esce a se stessa, in un altro entra in se stessa per quella legge di equilibrio, “cosciente” appunto, che a breve andremo a comprendere profondamente.

Dritti di lama, troviamo nel latino [conscientīa/ae] con dottrina, cognizione, conoscenza ed è così che già inizia a chiamarci quella nota profonda che a tutta una singolarità conduce tale che non vi sia più alcuna individualità. Accade poiché l’imperativo latino dettato da un semplice [con] trova altresì fonda nelle Orationes pro Milone di Cicerone ove andava declamando:
“Magna vis est conscientiae, iudices, et magna in utramque partem, ut neque timeant qui nihil commiserint, et poenam semper ante oculos versari putent qui peccarint”.

Non se ne può fare a meno di accompagnarvisi, non se ne può non cogliere l’ammonizione [moneo/ere] che porti ad un [monstro/are] alias far conoscere, far pensare, mostrare ciò che sia effettivamente, nella sua singolarità. E tanto di più il termine [memini/isse] ricordare da cui, corre amore sostare sui Fiumi di Giuseppe Ungaretti e fermarsi e ritrovarsi:
Cotici il 16 agosto 1916

Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato
L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia
Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre
.

E tutto ciò riconduce, senza boline di sorta consapevoli dell’epico viaggio vitale nei suoi monologhi interiori, direttamente a termini greci quali [monē] significativo di sosta riflessiva e [monakhós] esplicativo di unico, solitario fintanto monaco ed altresì [monastērion] dove vivono i solitari o, come nei levantini epicentri medievali del sapere, monasteri.

Come spesso è già accaduto, a dar fuoco e linfa alle nostre intuizioni, sovviene il sanscrito ove rinveniamo [manas] quale termine per coscienza e [man] quale verbo gestuale dell’espletarla comprendendo, ricordando, riflettendo, pensando. E [man] altro non è, che la composizione di [m] per cui la misura con [an/nā] ergo il soffio vitale delle Acque. Si affianca a noi, fratello al nostro intelletto, anche il termine greco [autmē] significato di soffio che in sanscrito è reso da [ātman] quella parte finita, ben identificata nell’infinitesima parte di eterno e di divino che è in ogni uomo; quel libero moto dell’uomo a veleggiare nella propria intrinseca realtà spirituale, nel proprio intimo SE invocando, nutrendosi del divino, tale da divenir essente.

Altipiani anatolici testimoni di antichi equilibri dimenticati, privi di rumori e anime vive, srotolano innanzi a noi, innanzi a noi stessi, soli con noi stessi, senza attimi e spazi, integri da pensieri e sentimenti, fusi nella singolarità a oro della nostra evoluzione.

Leggendo la Bibbia alla Genesi cap. I contempliamo:
In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e aleggiava lo spirito di Dio sulle acque.

Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e la separò dalle tenebre e chiamò giorno la luce e notte le tenebre . Fu sera e fu mattina: il primo giorno.

Leggendo i versi Rig Veda X, 129 1/4 contempliamo:
All’inizio non vi era essere, né vi era non-essere.Che ricopriva l’insondabile profondità delle acque e come fosse e dove fosse il riparo? Non vi era atmosfera né al di là di essa, la volta celeste.
Non vi era morte allora, né immortalità. Non vi era giorno. Non vi era notte. Quell’uno viveva in se e per sé, senza respiro. Al di fuori di quell’uno vi era il Nulla.
Vi era oscurità all’inizio, e ancora oscurità in una imperscrutabile continuità di acque. Tutto ciò che esisteva era un vuoto senza forma. Quell’uno era nato per la potenza dell’Ardore.
All’inizio sorse infatti l’Amore [kāmas] che era il primo seme della Mente. Scrutando nei loro cuori i sapienti scoprirono con la loro saggezza, il legame tra l’essere e il non-essere.

Vi invito ad assaporare i toni del primo verso alla mia lettura sanscrita, tale che la mente si unisca al cuore e, all’unisono, si renda insieme onore e gloria a quella Coscienza che alberga in noi tutti, senza distinzioni, senza rivoli umani, senza intromissioni materiali.

Sorretti da un [spiro/are] sul nostro [spiritus], quella candela si va spegnendo, tale che abbiamo ripercorso insieme, per quell’attimo dovuto all’essere, le vie dei padri antidiluviani, le vie dell’ [ātman] finito, tangenti il [brahman] infinito ed eterno che [Abrhamus] iniziò lasciando, lasciando Carran da cui e per cui:
Apro la mano
contemplo
che potenza sprigioni
il lasciarsi