Le parole sono come i luoghi della nostra quotidianità. Ci abituiamo tanto alla loro presenza, alla loro presunta immutabilità che dimentichiamo di guardarli, non li vediamo più, diamo per scontato che saranno sempre lì, finché un giorno, per caso, magari dopo molto tempo dall'avvenuto cambiamento, ci accorgiamo che qualcosa è mutato e allora abbiamo la netta sensazione di avere irreparabilmente subito una morte, un distacco di cui non ci siamo resi conto. Ed è solo il rimpianto che permette al nostro cuore di custodire la memoria di ciò che abbiamo perduto, ma poi, si sa, il tempo cancella i ricordi e tutto, anche il bello e il bene, si dissolve nella lontananza.

Ho letto che fra le tribù dei Papuani il lessico si impoverisce rapidamente poiché dopo ogni morte vengono tolti alcuni vocaboli dalla lingua in segno di lutto. Questo a sottolineare quanto sia stretto il legame fra lingua e cultura di un popolo, e quanto i due ambiti si diano reciprocamente forza e garanzia di sopravvivenza. Anche sulle parole si potrebbe aprire una discussione comparabile a quella sul restauro delle opere d'arte o delle città: fino a che punto ci si può allontanare dalla facies più antica? Fino a che punto si può distruggere, alterare, innovare per trovare forme più rispondenti alla nostra visione estetica, ideologica, religiosa? Fino a che punto si può cancellare il passato?

Non si tratta certo di creare false contrapposizioni fra chi vorrebbe ostacolare il corso della storia e chi invece si proietta senza timori verso il futuro: sappiamo ormai molto bene che quello di progresso non è un concetto neutro, ed anzi la storia ha dimostrato che averlo talora ritenuto tale ha creato danni irreparabili. E' piuttosto un desiderio: che si possa considerare con attenzione lucida, disincantata, talora anche crudele, quanto l'incidenza delle parole e della loro combinazione alchemica a formare il linguaggio sia forte sul piano dei rapporti sociali, di quelli interpersonali e, per logica conseguenza, di quelli politici e di potere. "Anche le parole sono azioni": Wittgenstein aveva ragione. E proprio per questo non sono neutre, hanno un maschile e un femminile, un dritto e un rovescio, un retro e un verso, sono corpo e anima, sono godibili ai sensi e hanno una natura mistica, segreta, una potenza che non a caso gli antichi chiamavano incantesimo.

Nella "società dello spettacolo" le parole sono sempre più frequentemente usate come involucri vuoti, segnali fonetici che non lasciano vedere la parola-essere, la parola-cuore. L'etimologia, la ‘scienza dell'etimo’, termine che nella lingua greca indica il vero significato, ne svela l’essenza, ne sfiora l’anima, inerisce al vero. La scienza dell'etimo è tutt'altro che un esercizio linguistico e ben lo sapevano gli antichi che ne fecero una pratica filosofica, un terreno di costante ricerca e speculazione. Andare alla radice delle parole significa entrare con loro in un rapporto intimo, e l'intimità è sempre rivelatrice. Gli involucri-contenitori della parola-merce reclamizzata, venduta, lanciata sul mercato, imposta dall'uso mediatico vanno infranti per svelare la parola nella sua forma originaria, nel suo tessuto primigenio senza modelli estetici preconfezionati o pudori moralistici. Il contatto coraggioso, libero con il corpo-parola attraverso lo svelamento che l'etimologia permette, ci avvicina alla parola-cuore, ci indica una via di verità.

Sono ben consapevole che quello del “vero” è un terreno spinoso, accidentato, costellato di inganni e di stranianti allettamenti. Già Platone nel Cratilo, affrontando il problema dei nomi attribuiti alle cose, ci presenta almeno due vie: Cratilo sostiene che il nome è, per così dire, espressione della natura di un oggetto. Non sono gli uomini ad aver dato i nomi bensì una potenza superiore che, penetrando l'essenza delle cose, ha potuto ‘definire’ ciascuna in modo giusto, unico e necessario. Quindi i nomi delle cose dovrebbero guidarci alla conoscenza della loro vera natura. Socrate non è d'accordo e sostiene che i nomi sono una convenzione e non possono essere oggetto della vera conoscenza che riguarda le cose e non le parole.

Potrebbe essere anche oggi un bel tema di discussione capace di rimescolare certezze e acquisizioni, di aprire spiragli nell’impetuoso fiume della superficialità e del fraintendimento. Cercare l'etymon, il vero significato, è ritrovare il gusto della parola come elemento complesso nel quale convivono verità ed illusionismo. Quello delle parole è un giuoco pulito, con regole chiare dove molto è permesso ad eccezione dell'inganno. Sì, perché sulla scena della vita gli attori sono bugiardi, ma le parole sono vere. E le prove di ciò sono più che evidenti. Parole come integralismo, laico, democrazia, integrazione, emancipazione sono pletoricamente ricorrenti nei copioni di protagonisti e comparse dello spettacolo della politica: l'attor giovane come il mattatore di vecchia scuola avanzano sul palcoscenico brandendole come un'arma che colpisce a destra e a manca, le rovesciano sugli spettatori per acchiappare applausi, infiocchettate di orpelli retorici sempre più stinti, vuoti e inconsistenti.

La presunta necessità di semplificare il linguaggio della comunicazione finisce per giustificare la crescente perdita di correttezza e quindi di veridicità e attendibilità nell'uso delle parole e lascia spazio a pericolosi malintesi. La lingua non è un organismo fossile ma c’è grande differenza fra il riconoscimento della sua vitalità, del suo dinamismo e l'accettazione di un suo uso fuorviante. In realtà l'impoverimento del senso delle parole, il loro uso riduttivo, superficiale, talora mistificato sono elementi funzionali ad una perdita di sfumature, di differenze, di saperi che hanno rilevanza fondante sul piano sociale e culturale. E' vero che il linguaggio è relativo ai tempi, ma è anche vero che il rapporto con i tempi è segnato dalla nostra capacità di attraversarli senza esserne travolti.

Farsi sporcare dal divenire delle cose è esperienza ineluttabile, e anche le parole non si sottraggono alla curiosità della contaminazione, al desiderio di indossare abiti globalizzati, ma è la nostra autonomia soggettiva che crea lo spartiacque tra la piattezza condiscendente del "consumerismo" verbale e il dubbio creativo, libertario, coraggioso, ribelle, dissacrante, ma anche caparbio e rigoroso: quello che solo induce alla conoscenza.

A cura di SAVE THE WORDS™