Ci hanno insegnato, quando eravamo giovanissimi, che una lingua si evolve, e si trasforma. E per spiegarci come avveniva questo processo indicavano tre parole: il neologismo, il barbarismo, l'idiotismo. Vale a dire, semplificando al massimo, rispettivamente: la parola nata dall'uso di nuovi oggetti e nuove pratiche, il neologismo; la parola emigrata da un'altra lingua e approdata alla nostra, il barbarismo; la parola che da un dialetto transita stabilmente nella lingua nazionale, l’idiotismo.

È lecito chiedersi che ne sarà della lingua italiana, dal momento che l'innovazione linguistica è finita nelle mani e sulla bocca dei nostri politici. Hanno recentemente inventato la spending review e, subito dopo il Jobs Act. Espressioni nuove entrate stabilmente nel linguaggio di tutti i giorni. Nulla di sorprendente, s’intende. L'inglese ormai è straripato in tutto il mondo; è una lingua sbrigativa e agile, che si fa forte del monosillabismo di molte parole, vincente sul plurisillabismo dell'italiano. Il diffusissimo e celebratissimo “love”, ad esempio, che si pronuncia “lov”, senza far sentire la “e” finale, è molto più immediato del nostro “amore”; e, coerentemente e conseguentemente, è altrettanto istantaneo e fulmineo il “kiss” rispetto al nostro “bacio”.

Pensate anche all'effetto di dream, di night, di moon, complementi essenziali dell'amore – il sogno, la notte, la luna - che sono monosillabi, quasi sospiri, di fronte ai nostri, corrispettivi bisillabici. Le canzoni americane e inglesi, o comunque cantate in inglese, ci hanno abituato all'uso di espressioni contratte velocissime. Riflettete, per fare un altro esempio, che “tu sei il mio sogno” in inglese conta solo tre sillabe; pensate alla rapidità e cantabilità di “rain and tears” rispetto alla lunghezza del corrispondente italiano “pioggia e lacrime”. E così the job – il lavoro o l'impiego”- è fatto di una sola sillaba, che accoppiato ad act, dà vita ad una formula rapidissima che sintetizza un complesso processo.

Ma siamo sicuri che in quest’ abbinamento di due parole inglesi, oltre al bisogno di velocità di espressione non ci sia una latente volontà di mistero, di non farci capire bene cosa fanno? Chissà! E la spending review perché non l'hanno chiamata "revisione spesa"? In fondo sono solo quattro sillabe contro le sei italiane. Perché – ci domandiamo - quando dicono che bisogna “tagliare” (parola di tre sillabe) non ricorrono all’imperativo “cut”? Perché – azzardiamo una risposta - in questo caso, quello del tagliare, la chiarezza è essenziale e non si deve correre il minimo rischio che la gente non capisca bene.

Quale che sia il grado di sincerità e di trasparenza morale dei nostri politici, resta il fatto innegabile che l'inglese è ormai entrato nella nostra vita e dobbiamo tenercelo, dimenticando che sul problema della lingua italiana illustrissimi predecessori ne hanno impegnati di tempo, di fatica e di dotti litigi. Da qualche tempo i nostri politici sembrano ricordarsi anche delle più antiche tradizioni della nostra terra, riscoprendo il latino, che, cacciato a calci dalle nostre scuole e dalle nostre università, rientra trionfalmente nel gergo politico. Oddio, tanto trionfalmente, a ben vedere, non si può propriamente dire. I nostri politici, infatti, maneggiano il latino un po' come Renzo Tramaglino. Ricordate? Quando Don Abbondio cerca di spiegare, perché non può celebrare il suo matrimonio, subissandolo di dottissime citazioni, il giovane lo interrompe così: “Si piglia gioco di me? Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?” Il giovane promesso sposo, ricorre a un genitivo plurale perché gli sembra più solenne.

L'espressione “latinorum”, per lungo tempo, rimase quasi un modo, abbastanza diffuso, di indicare un ambiente lontano e astruso come quello dello studio del latino. Latinorum, guida pratica per i padri dei ragazzi che studiano il latino è il titolo di un saggio di Michele Fornaciari pubblicato nel 1947 da Longanesi, che ebbe grande successo, tanto da essere tradotto nel 1952 in spagnolo e ripubblicato nel 1956, sempre da Longanesi. Michele Fornaciari era uno pseudonimo: ne era autore il giornalista Giovanni Ansaldo. Vi si discuteva del modo di favorire ai giovani l'accesso al latino e si spiegava come e perché lo studio di quella lingua era utile e formativo. Per i politici italiani il latino è, proprio come il “latinorum” di Renzo, per cui tutti i termini che vanno a ripescare nella nostra lingua madre sono in accusativo singolare, forse pensando che la desinenza “um” abbia qualcosa di più arcaico e aulico, insomma di più latineggiante.

Ed ecco il porcellum, accusativo singolare di porcellus, porcelli (quando citavamo le parole latine eravamo costretti a indicare nominativo e genitivo). Ed ecco italicum, che è un aggettivo italicus, italica, italicum (maschile, femminile e neutro); verifico sul leggendario vocabolario Campanini Carboni la traduzione facile facile: “italico”. Ed ecco mattarellum o matterellum. Vado sul fidato *Campanini Carboni; ma matterellum o mattarellum, non lo trovo. Se lo sono inventati! Ma no mi dico subito dopo, che sciocco che sono, che distratto! Si tratta di una mirabile invenzione in latino maccheronico. Già, il famoso latino maccheronico. Che è la lingua dell’omonima letteratura nata alla metà del quattrocento negli ambienti dell'università di Padova, legata all'espressione talora spensieratamente scollacciata della goliardia e poi rifluita in capolavori di arguzia e di comicità di autori famosi come la Macaronea di Tifi Odasi o il Baldus di Teofilo Folengo. Del latino venivano rispettate sintassi, grammatica e morfologia; ma si creavano stridenti mescolanze tra la antica lingua e il volgare per ottenere effetti di volta in volta fortemente caricaturali, giocosi, ironici e comici.

Il mattarellum è parola presa dall'italiano, ed è trattata come fosse parola latina, con il meccanismo proprio del latino maccheronico; pare che piaccia molto ai nostri politici, che, poco in familiarità con la nostra storia e le nostre tradizioni letterarie, ignorano che questo antico genere aveva intenti apertamente caricaturali, comici e grotteschi. Ma ai nostri politici, questo, nessuno l’ha detto ancora. Come nessuno ha mai detto ai Leghisti che, piuttosto che ricorrere al coro degli ebrei schiavi in Babilonia del Nabucco, per fare di Va pensiero un inno da intonare con la destra sul cuore, sulle rive del Po piuttosto che sulle rive del Giordano, cantando su versi dal significato un po' oscuro come “o simìle di Solima ai fati”, potrebbero, in maniera assai più consona ai loro ideali padani, cantare O Signor che dal tetto natio da I Lombardi alla prima crociata, sempre di Verdi. Infatti in questo coro si lodano le verdi terre padane e si dice espressamente che i Lombardi, “giubilando per l'aspro sentier” sono giunti “all'invito di un pio”, che è nientemeno che il loro Alberto da Giussano.

Forse l'istituzione di un corso serale di aggiornamento culturale da impartire a tutti, da destra a sinistra, magari a camere congiunte, ovviamente gratuito, non sarebbe una cattiva idea. Che ne dite?