L'orrore ci balena sotto gli occhi continuamente attraverso i media, sconvolge la nostra sensibilità e sembra essere la cifra del presente. In realtà sappiamo che il Male non è peculiarità esclusiva dei nostri giorni, perché ha tenuto a battesimo l'uomo fin dalle sue origini e se oggi pare una marea travolgente è solo perché naviga molto meglio del Bene sul mare dell'“informazione”. Ma, come dice Hegel, la storia è “il banco del macellaio” e ha sempre grondato sangue, perché dunque ci sembra così esiziale un fenomeno che ha tranquillamente intriso il quotidiano nel passato ben più che ai nostri giorni? La risposta è che l'orrore e la disperazione dominano la scena per la clamorosa assenza dei loro naturali antagonisti: il bene e la speranza in un mondo migliore.

In passato lo spirito umano ha sempre saputo risollevarsi coltivando nelle ceneri della distruzione e della decadenza i germi stessi del suo rinnovamento, così è stato per Roma dopo la crisi del mondo greco, per Costantinopoli dopo la caduta di Roma, per il trionfo della Croce sul mondo pagano e dell'Umanesimo su quella civiltà che nella Croce trovava il suo fondamento. Ogni rinnovamento attingeva forza ed entusiasmo dalle fonti dell'Essere ed è stato un mareggiare ininterrotto di onde poderose che hanno plasmato le sponde della storia. Ora invece un insulso sciabordio increspa appena acque stagnanti e getta solo schiuma su quelle sponde. Come è potuto accadere? E soprattutto: è possibile uscire da questo stallo disperante?

Purtroppo, la morte di Dio annunciata da Nietzsche nell'aforisma 125 della Gaia Scienza, ha spianato la strada al nichilismo e in esso muoiono Abramo e Ulisse, gli archetipi universali: l’uomo di Dio, il Giusto dalla fede incrollabile nella Tradizione e l'eroe umano per eccellenza, spinto da quel grande amore che per Leonardo era figlio della grande conoscenza. Quindi l'uomo moderno è rimasto solo, frammentato e in preda all'angoscia. Una vita integra e piena gli è filosoficamente preclusa, perché non crede più negli Dei e non ha più fiducia in se stesso e nella sua scienza.

I grandi intellettuali propongono di volta in volta una via d'uscita dal deserto del nichilismo: chi preconizza un ritorno alle grandi tradizioni come Guenon, chi auspica, come Heidegger, "l'abbandono di fronte alle cose e l'apertura al mistero", altri, come Ernst Junger suggeriscono di darsi alla fuga, di "passare al bosco" ma è un brancolare nel buio.

Purtroppo la moderna scienza sperimentale non solo ha spento la fiamma della fede nella trascendenza, uccidendo gli Dei uno a uno per spezzare ogni vincolo che limitasse la sua libertà, ma ha anche spinto la sua opera, tesa a dominare la Natura senza amore né rispetto, fino alle estreme conseguenze. Il mondo intero infatti è stato non solo guastato con operazioni predeterminate dal calcolo con finalità di sfruttamento e usura, ma anche censito, mappato, catalogato e privato cinicamente di quel senso di mistero e di meraviglia di cui era pervaso. Ma se, come scrive Giorgio Colli, il contrario del cinismo è la venerazione, allora la capacità di venerazione è un carattere discriminante nella natura umana. Infatti al cospetto della grandezza e del mistero sorge in alcuni un senso di riconoscenza e sono pronti ad abbeverarsi con gratitudine alla fonte stessa dell'Essere che da lì erompe, in altri sorge, al contrario, un rifiuto e un istinto di fuga che poi si trasforma in una spasmodica ricerca di falle o di punti deboli su cui far leva, per una critica corrosiva e compiaciuta al fine di distruggere sistematicamente quella grandezza, nel tentativo di profanare quel mistero.

Giovanni Pico della Mirandola, filosofo e umanista, vissuto in quella stagione che nella seconda metà del XV secolo raccolse i migliori intelletti attorno ai Medici di Firenze, scriveva nell'Oratio de hominis dignitate che "Già Dio, compiuta la sua opera, sentiva il desiderio che ci fosse qualcuno che comprendesse la ragione, amasse la bellezza e ammirasse la grandiosità di un'opera tanto meravigliosa. Perciò pensò di creare l'uomo, lo accolse come opera di natura non definita, lo pose nel cuore dell' universo e così gli parlò: "ti ho posto al centro del mondo perché di lì più agevolmente tu possa vedere tutto quello che nel mondo esiste. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché tu, come se di te stesso fossi il libero e sovrano creatore, ti plasmi da te secondo la forma che preferisci . Tu potrai degenerare abbassandoti sino agli esseri inferiori che sono i bruti, oppure, seguendo l'impulso del tuo animo, rigenerarti elevandoti agli spiriti maggiori che sono divini".

Fermarsi al centro del mondo, nel cuore dell' universo e da lì guardare vedendo. Forse questo che è stato il manifesto dell'Umanesimo può indicare la via per un nuovo Rinascimento. Ma dall'abisso del tempo, dal primo secolo dell'era Cristiana ci perviene in siriaco un'altra possibile traccia da seguire:
Chi può interpretare le meraviglie del Signore?
Chi le sapesse interpretare sarebbe dissolto, diventerebbe ciò che si interpreta.
Basti sapere e stare nella quiete, poiché nella quiete stanno i cantori, come un fiume dalla sorgiva abbondante che corre in soccorso di chi lo cerca.
Lode al Creatore.

(Odi di Salomone XXVI, 11-14).

Chissà che in questa vertigine non si nasconda la via per un nuovo Umanesimo, per un nuovo Rinascimento?

Scritto con Marco Cavara