Concependo come un tutt’uno la mente e il corpo, che il nostro linguaggio cartesiano ci costringe a nominare separati, Maturana evidenzia l’impossibilità per noi di un operare astratto, che non riguardi la nostra corporeità, anche nel linguaggio. «Il bambino impara a parlare senza cogliere i simboli, trasformandosi nello spazio di convivenza configurato nelle sue interazioni con la madre, con il padre e con gli altri bambini e adulti che costituiscono il suo mondo. In questo spazio di convivenza il suo corpo va cambiando come risultato di questa storia e seguendo una direzione contingente a questa storia. E il bambino che non è esposto a una storia umana e non vive trasformando in essa il fatto di vivere in essa, non è umano» (Maturana 2006, 71-72).

Noi incorporiamo, letteralmente, i nostri valori e le nostre abitudini e la difficoltà che abbiamo nel cambiarli, dopo che si è vissuti a lungo in un certo modo, dipende dall’“inerzia corporea”, che però non va vista come un limite, poiché noi viviamo attraverso il corpo, che è “la nostra possibilità e condizione di essere” (Ivi, 72). Per cercare di comprendere questo argomentare, ricordiamo che esso si colloca nell’ambito del pensiero autopoietico. Per Maturana e Varela e la loro teoria dell’autopoiesi, per la quale gli organismi sono sistemi che si creano e si automantengono [1] (Maturana e Varela 1999; 2001), l’intero nostro vivere è un agire e l’agire è conoscere, in un circolo inscindibile, in cui la cognizione è l’azione che si effettua con il vivere, per cui il mondo non è qualcosa che ci è dato, ma qualcosa che noi assumiamo vivendo e conoscendo.

Quando due sistemi autopoietici interagiscono in maniera ricorrente fra di loro, dando luogo a mutui cambiamenti, che possono essere innescati sia dalle interazioni connesse con la dinamica interna dell’unità autopoietica sia da quelle generantesi a causa dell’interazione fra le unità auto poietiche, secondo una modalità che diviene ontogenetica, essi entrano in accoppiamento strutturale. Da notare (Maturana e Varela 1999). Un tale processo sarebbe all’origine delle interazioni sociali. Maturana e Varela parlano di accoppiamento strutturale, con tutto quanto da ciò deriva nei termini delle reciproche modificazioni della struttura delle entità in interrelazione, più in generale ogniqualvolta che, con l’accettazione dell’altro nella convivenza, si realizzi un fenomeno sociale, quella socializzazione senza la quale non ci sarebbe umanità (Maturana e Varela 1999, 203-204).

I sistemi sociali umani, secondo i nostri autori, possiedono una loro chiusura operativa, in quanto comunità umane formate dall’accoppiamento strutturale dei suoi componenti, il quale si attua in un dominio tipicamente umano, quello del linguaggio; tutta la storia evolutiva dell’essere umano è associata ai suoi comportamenti linguistici e la sua plasticità comportamentale ontogenetica, che in tali domini si è sviluppata, li rende anche possibili. In un sistema sociale, dunque, gli individui interagiscono nel linguaggio e, grazie alla loro plasticità strutturale, che deriva dal loro essere dotati di un sistema nervoso complesso, vivono in coerenza e in armonia (Ivi, 174-175).

Maturana esprime molto chiaramente l’importanza di quella che lui ora chiama “congruenza” fra l’organismo e l’ambiente. Anzi la storia dei cambiamenti strutturali, che avvengono per mantenere la congruenza fra noi e l’ambiente, il quale cambia in interrelazione con noi finché esistiamo, traccia il corso della nostra vita. Noi viviamo il nostro presente che si va generando continuamente come trasformazione dell’orizzonte di congruenze cui apparteniamo con l’ambiente e con gli altri con i quali stabiliamo di volta in volta un campo di coordinazioni comportamentali, che si trasformano in congruenze con il procedere della storia della nostra vita (Maturana 2006, 73-77).

Noi diventiamo, senza che nessuno esterno a noi possa specificare ciò che ci accade, assumendo al più per noi la valenza di una coincidenza storica. «Anche in una conversazione […] ognuno ascolta a partire da se stesso; e costitutivamente, in ragione del proprio determinismo strutturale, non può che ascoltare a partire da se stesso» (Ivi, 75-76). Le parole stesse che state leggendo ora sono, secondo Maturana, un’alterazione che scatena in ciascuno di voi un cambiamento strutturale determinato in voi, rispetto al quale chi scrive è solo la contingenza storica per cui voi vi ritrovate a pensare quello che state pensando. Quindi, tutto quanto ci accade, in senso stretto, non accade in maniera casuale, ma, come sostiene anche Bohm (1996), «tutto ci capita in un presente interconnesso […]. Al tempo stesso, niente di quello che facciamo o pensiamo è banale o irrilevante, perché tutto quello che facciamo ha conseguenze nell’ambito dei cambiamenti strutturali cui apparteniamo» (Maturana 2006, 76).

Cosa è “comunicare”?

Prendiamo ora in esame il significato della parola “comunicazione”. Essa, come è noto, deriva dal latino ed è formata dalla parola commun e dal suffisso “ie”, che, come fa notare Bohm, è simile a “fie” e quindi sta per “fare, costruire”. Dunque, “comunicare” potrebbe essere inteso come “mettere qualcosa in comune”, ad esempio trasmettere l’informazione o la conoscenza da una persona ad un’altra nel modo più accurato possibile, ma non solo (Bohm 1996, 2). Si potrebbe subito notare che se “comunicare” può essere inteso come “mettere qualcosa in comune”, dovremmo presupporre l’esistenza in sé di quel qualcosa che viene messo in comune e questo ci riporterebbe alla divisione soggetto/oggetto che qui stiamo proponendo di superare, come hanno ampliamente argomentato nei loro lavori gli autori cui ci stiamo riferendo. Ad esempio, la comunicazione non può essere definita come un processo di trasferimento da un mandante a un ricevente con l’uso di un mezzo nel quale l’informazione comunicata è compresa da entrambi, secondo il punto di vista dei sistemi autopoietici, che sono incompatibili con le informazioni istruttive, poiché come sappiamo «niente di esterno ad un sistema determinato strutturalmente può specificare i cambiamenti strutturali ai quali va incontro come conseguenza di un’interazione.

Un agente esterno che interagisce con un sistema strutturalmente determinato può soltanto innescare in esso cambiamenti strutturali» (Maturana 1988, 10-11, traduzione mia) i quali sono però funzione del suo determinismo strutturale, ossia dipendono dalla sua specifica identità come unità autopoietica. Anche nella vita di ogni giorno è evidente che il parlare non assicura l’ascolto, poiché «ogni persona dice ciò che dice o ascolta ciò che ascolta secondo la propria determinazione strutturale. Dal punto di vista di un osservatore, c’è sempre ambiguità in un’interazione comunicativa» (Maturana e Varela 1999, 169, traduzione mia).

Di questa ambiguità [2] Bohm coglie la dinamica processuale, in maniera eccellente, con la sua trasformazione in un’area di costruzione intersoggettiva. Se proviamo, infatti, a guardare ad una situazione dialogica, caratterizzata dalla mancanza di pregiudizi e dalla libera disposizione all’ascolto dell’altro, atteggiamenti che, come vedremo, vengono ripetutamente richiesti anche da Humberto Maturana, potremmo facilmente concordare sul fatto che «quando una persona dice qualcosa, l’altra persona non risponde in generale con esattamente lo stesso significato come questo viene inteso dalla prima. Al contrario, i significati sono soltanto simili, non identici. Così, quando la seconda persona replica, la prima persona vede una differenza tra quello che egli intendeva dire e quello che l’altra persona [come appare a lui] ha capito. In considerazione di questa differenza, egli è in grado di dire qualcosa di nuovo, che è rilevante sia per i propri punti di vista sia per quelli dell’altra persona» (Bohm 1996, 2, traduzione mia).

Questo processo, altalenante fra gli individui in dialogo, prosegue con la continua emergenza di nuovi contenuti, comuni ai suoi partecipanti. «Così, in un dialogo, ciascuna persona non tenta di mettere in comune certe idee o oggetti di informazione che gli siano già noti. Si può, invece, affermare che le due persone stanno facendo qualcosa in comune, ad esempio stanno creando qualcosa di nuovo insieme» (Bohm 1996, 2, traduzione mia). Se, però, mancano le premesse di apertura comunicativa e ciascuno vuole imporre all’altro le proprie idee o i propri “oggetti” comunicativi, sorgono inevitabili problemi di comunicazione (Ivi, 3).

Il dialogo polimorfo

Una riflessione particolare merita ora il termine “dialogo”. Per questo ci rifaremo a David Bohm, il quale ricorda che esso, dal greco antico “dialogos”, è composto da “logos”, che significa in una prima accezione “la parola” o nel nostro caso piuttosto “significato della parola”, e “dia”, che significa “attraverso”. Questa seconda parte è particolarmente importante, poiché non fa riferimento a “due” sole persone, per cui il dialogo può essere concepito svolgersi fra un qualunque numero di persone (Bohm 1996, 6), come conversazione fra pari. Volendo evidenziare come si svolge il processo dialogico nella dinamicità della relazione, definiamo qui “polimorfo” il dialogo, per mettere in luce il suo svolgersi costruendosi attraverso molteplici dimensioni, coinvolgendo la persona nella sua interezza, senza separare la componente emozionale da quella razionale, impedendo la separazione corpo-mente, ed evolvendosi travolgendo eventuali nodi problematici e la relativa situazione di malessere, che finisce con il trasformarsi o addirittura con il dissolversi.

Le parole stesse hanno a tal fine una loro efficacia, poiché esse «sono azioni, non sono cose che si spostano da qui a là. […] è la rete di interazioni linguistiche quella che ci rende come siamo. […] è all’interno del linguaggio stesso che l’atto conoscitivo, nella coordinazione comportamentale che costituisce il linguaggio, ci offre il mondo a portata di mano. Ci realizziamo in un mutuo accoppiamento linguistico, non perché il linguaggio ci permetta di dire quello che siamo, ma perché siamo nel linguaggio, in un continuo essere immersi nei mondi linguistici e semantici con i quali veniamo a contatto» (Maturana e Varela 1999, 195-197).

Nell’interrelazione linguistica, ritroviamo e scopriamo noi stessi in divenire, in continua trasformazione, mentre costruiamo il nostro mondo linguistico insieme con altri esseri umani (Ivi, 197). Il nostro mondo sociale sorge con noi, nel nostro dialogare polimorfico, solo se ci muoviamo nel dominio dell’accettazione dell’altro, senza in alcun modo voler imporre il nostro punto di vista.

Autopoiesi - Άυτοποιέσις

Note:
[1] La parola autopoiesi, letteralmente “autocreazione”, coniata dallo stesso Maturana, è costituita dalle parole greche autos, che significa “sé”, e poiein, che significa “produrre, creare” (Maturana e Poerksen 2004, 97), volendo indicare così la principale caratteristica dei sistemi viventi, che è quella di produrre e sostenere se stessi all’interno di una dinamica circolarmente chiusa, in cui non c’è separazione fra produttore e prodotto (Maturana e Varela 1999).
[2] Come non ricordare a proposito del concetto di “armonia” lo splendido “Ambiguità e armonia” di Paul Karl Feyerabend? (vedi Feyerabend Paul Karl, 1999 – Ambiguità e armonia. Editori Laterza, Roma-Bari).

Per approfondimenti e per i riferimenti bibliografici citati nell’articolo:

Mascolo, Rossella. Cambiare il punto di vista: circolarità della vita e pratiche filosofiche. Rivista Italiana di Counseling Filosofico (2008): 64
Mascolo Rossella, 2011, L’emergere della biologia della cognizione. La complessità della vita di Humberto Maturana Romesin, aracneeditrice.it
Mascolo Rossella, di prossima pubblicazione: Dalla biologia della cognizione all'autopoiesi - fra Humberto R. Maturana e Francisco J. Varela

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