Un filo. Un telaio. È tutto ciò che serve a una dea per compiere la sua opera magnifica.

Prima viene il filo, governato dalle tre Signore del Destino. Tre come le tre età della luna, che regolano il tempo della fertilità, spietate e cieche nell’assegnare ai mortali la loro parte di sofferenza. Colei che torce il filo dipana la matassa caotica dell’indifferenza dell’universo. Colei che assegna i destini avvolge lo stame al fuso. Tremendo è il ritmo che imprimono le dita sapienti, vorticosa la rotazione: nella sua forza è attratto l’intero cosmo insieme a tutto ciò che in natura muore e si rigenera, appare e scompare. Infine, solo colei che taglia il filo, nella fissità di un breve istante, estingue l’assordante moto. Conosce la lunghezza di ogni esistenza: nemmeno il grande Zeus può mutarla.

Il filo porta ordine, disciplina. Salva dal caos, aiuta chi si è smarrito. Lo sa bene Arianna; lo ha imparato Teseo, quando errava nei meandri della sua esistenza difendendosi da mostri: il filo è la salvezza del pensiero e della ragione, ma senza il consiglio di una dea non si esce dal groviglio inestricabile del labirinto.

Dopo il filo viene l’abito. E a sapienza si aggiunge sapienza. A destrezza altra destrezza. Alla forza della rotazione subentra la paziente agilità dell’intreccio. E nell’intreccio prendono forma storie remote.

Tessere è il lavoro di ogni dea. Tesse Calipso, vicino alla sua grotta, tra gli odori del giardino sacro, e canta mentre percorre il telaio con la spola d’oro. Tesse Circe nel suo palazzo, compiendo un’opera grande e immortale. Splendente, piena di grazia. Nel gesto ripetitivo e instancabile si realizza la chiarezza della visione; nella fissità dello sguardo il silenzio interiore che precede ogni creazione; nell’inaspettato formarsi di ogni figura che emerge il potere del trasformare, il dono antico del profetare.

Tessere è anche lavoro per ogni donna mortale. Fu Atena a decidere di farsi maestra, all’alba dei tempi; lei che ricoprì di vesti e di doni la prima donna, Pandora. Lei, che chiamano “la lavoratrice”, la madre onorata delle arti. Atena è femmina e maschio, dea di guerra e di pace. Balzata fuori dalla testa di un padre, non generata dal ventre di una madre, di cui non ha conosciuto il dolce nutrimento. Figlia di pensiero e di ragione, disdegna i doni dell’amore e detesta le fragilità femminili. Predilige gli eroi, di cui si fa protettrice e consigliera, ma è anche amica delle donne, purché imprimano al mondo il sigillo dell’azione.

Tessere è costruire. Tessere è immaginare e realizzare. Se il telaio ultraterreno può decidere i fati, nelle mani di una donna è strumento di potere e identità. Tessere è controllare il proprio destino. Lo sa Penelope, di fronte alla grande tela, nelle ore interminabili del fare diurno e del disfare notturno, alla luce delle fiaccole: ha fermato il tempo, cristallizzato l’attesa, salvato se stessa e un intero regno. Lo sa anche Arete, regina della felice Scheria, che sedeva nella grande sala girando instancabile il fuso purpureo. Una meraviglia a vederla. A lei un eroe doveva abbracciare le ginocchia, se voleva salva la vita o un sicuro ritorno a casa. Tessere è politica, è autorità, è azione civile.

L’ordito è la matrice della realtà. Fili verticali: l’immutabile scheletro di ogni esistenza. Fili orizzontali: fantasia, scelta, differenziazione. Due direzioni che si incontrano nella sorpresa e nello stupore dell’inaspettato. Essenza e sostanza. La mano agile si avvale di pochi strumenti: fili, colori, una spola, una navetta che percorre veloce la trama.

Atena sa di essersi appropriata di un sapere antico. Forse non ne ha memoria, ma percepisce che la sua è un’eredità, non un’invenzione. Lo intuisce quando viene sfidata da una fanciulla dallo spirito intrepido, ma da dea superba e inflessibile qual è non rinuncia a difendere strenuamente la sua conquista. La fanciulla si chiama Aracne, famosa fra le genti non per stirpe ma per maestria nell’arte. Si dà per certo che Atena le abbia fatto da maestra; eppure Aracne non accetta di essere seconda nemmeno alla signora dall’elmo chiomato, e si vanta ad alta voce di essere più brava. Ma l’orecchio divino ascolta anche da lontano, e nessun peccato quanto il vanto dei mortali è considerato odioso dai numi. Nemmeno di fronte allo sguardo infuocato di Atena Aracne si inchina, né si piega a chiedere perdono: anzi, osa sfidarla nella competizione che sarà la sua rovina.

Che visione mirabile! Una dea e una fanciulla mortale contrapposte, intente in una danza ipnotica di gesti speculari: tendi l’ordito, avvolgilo al subbio, discrimina i fili con il pettine, guida la spola affusolata con la grazia di dita sapienti, intreccia la trama, pressala con un colpo sicuro. E poi daccapo, in senso inverso, svolgendo le matasse tinte di porpore e colori cangianti. Competizione filosofica, non solo manuale. Storie eccezionali emergono dal movimento creatore. Atena glorifica gli olimpici: dodici, maestosi e gravi sui troni eccelsi, ognuno splendente nella sua gloria. E per ammonire la rivale delle conseguenze della sua folle insolenza, ai quattro angoli dell’opera intesse storie di donne che osarono sfidare le dee, e la loro fatale punizione. Incornicia infine la tela con rami della pianta che le è sacra, l’ulivo della gloria e della pace.

Ma anche Aracne non è priva di astuzie, e le condisce con un intingolo sconosciuto ad Atena: l’ironia. Dimostra che gli dei siedono, sì, nelle sedi del celeste Olimpo, ma amano insozzarsi i sandali di fango. Raffigura tutti gli inganni orditi dall’adultero Zeus, e poi da Poseidone, Apollo e Dioniso, per rapire le fanciulle bramate, con la complicità di mille metamorfosi. Incornicia poi i soprusi degli immortali con le foglie dell’edera, pianta di estasi e passione, e sembra farsi beffe della verginità di Atena, che disdegna i piaceri dell’amore.

Nemmeno l’Invidia in persona avrebbe potuto denigrare l’opera di Aracne. Ma la fiera Atena sente ribollire il sangue di guerriera e già pensa a vendicare l’oltraggio. Fuori di sé fa a brandelli quell’opera illustre e con la spola prende a colpire la rivale. Lei cerca di difendersi, ma comprende che la sua folle audacia ha decretato la sua rovina. Non c’è scampo dalla furia di una dea: l’unica salvezza è in una morte più rapida e meno crudele. Trova un cappio e se lo lega al collo: un filo ha cadenzato il tempo della sua infanzia, speso a concepire le tele magnifiche, e un filo la accompagnerà oltre la soglia del mistero.

Solo allora Atena ne ha pietà; o forse ritiene la morte un pegno troppo leggero? Intravede nell’impeto di Aracne forze antiche che lottano per riaffermare un potere sopito: la sua vittoria dovrà essere totale. Il suo primato insindacabile agli occhi delle genti. “Vivi, insolente, il tuo supplizio sia più cocente! Un telaio sarà per te gloria e prigione, il tuo premio geometria e precisione. E affinché il tuo lavoro sia ancora più perfetto, ti darò la forma del più abile architetto!”

Basta la parola incantatoria, e le membra della sventurata si contraggono in uno spasmo: cadono i capelli, cadono il naso e le orecchie. La testa si rimpicciolisce orribilmente mentre il corpo si dilata in un unico enorme ventre; gambe e braccia si assottigliano in lunghe sottili zampe di ragno, e altre ne genera il nuovo addome. Questo, infine, secerne materia informe: Aracne è spinta da un istinto remoto, e la metamorfosi moltiplica l’antica perizia di fanciulla.

Rapidissima, ricomincia la cadenza ipnotica dell’antica dea trasformatrice.