A Saint Paul de Vence, nel Dipartimento delle Alpes-Maritimes, i negozi di souvenir tirano giù le saracinesche piuttosto presto, anche in piena estate. Rimane aperto solo qualche atelier. Lì per lì penso sia un errore, una pessima idea per un paese che vive di turismo. L’incapacità di rinunciare alla quiete e al bien vivre ha la meglio sul marketing turistico? Mi rendo subito conto che le due cose possono coincidere perfettamente.

Quando i negozi chiudono, infatti, la maggioranza dei visitatori fa qualche ultimo scatto di smartphone, un ultimo giro tra le stradine strette tra le mura e intorno alla fontana e poi varca in uscita la grande porta sotto le mura, lasciando che l'atmosfera cambi. Su Saint Paul per un'oretta cala un silenzio surreale. Solo dopo arriveranno altri visitatori, quelli non occasionali, che salgono in paese per sedersi ai tavoli di uno dei suoi ristoranti o per una partita nel campo da bocce tra i platani. Nel frattempo, però, strade, scalinate, piazzette e belvedere sono tutti per me. Ho l’esaltante sensazione di poter vivere un momento magico.

E' così che, girovagando con calma, arrivo al punto più alto del castrum, sulla salita dell'antichissima chiesa collegiata e, superata questa, alla cancellata azzurrina - come il glicine che le cresce accanto - di quella che era la vecchia scuola, nonché l'abitazione di Célestin Freinet. Anche le finestre sono color carta da zucchero e affacciano su un cortile ombreggiato da un pergolato d'uva. Pedagogista ed educatore, Freinet, classe 1896, fu un ospite di Saint Paul assai meno famoso di diversi altri, da Yves Montand e Simon Signoret a Picasso, Chagall, Prévert. Freinet arrivò qui nel 1928. Era stato chiamato sotto le armi durante la Grande Guerra, era rimasto gravemente ferito a un polmone e, per questo, gli era stata assegnata una pensione grazie alla quale, volendo, avrebbe potuto vivere senza lavorare. Invece riprese a studiare per laurearsi in Lettere e, quando gli fu proposto un incarico alle superiori, lo rifiutò per rimanere nella "scuola dei bambini".

Ma la scuola che immaginò e realizzò aveva caratteristiche molto diverse da quella tradizionale. E di qui in poi le sue vicende si fanno straordinariamente vicine a quelle di un altro pedagogista al di fuori degli schemi, l'italiano Alberto Manzi. Ad accomunarli, oltre la passione e grandi doti comunicative, la convinzione che l'insegnamento dovesse smettere di essere nozionistico, centrato sulla figura di un maestro che parla e di una scolaresca che, immobile tra i banchi, ascolta. Freinet, per via delle ferite riportate in guerra, aveva difficoltà a parlare a lungo e a voce alta e si era accorto che, del resto, il vecchio metodo affaticava non solo lui, ma soprattutto la classe.

Le sue idee innovative, però, gli provocarono le antipatie della vecchia guardia. Un ispettore, nel 1933, lo trasferì d'ufficio ma Freinet, a quel punto, decise di dimettersi dalla scuola statale. Non si arrese, però. Gli abitanti della zona e sua moglie Élise lo aiutarono a tirar su nella vicina Vence, mattone su mattone, l'École Freinet, una scuola senza aule, con un orto e tanti altri spazi all'aperto per conoscere, giocare e fare esperimenti. I bambini erano parte attiva perfino nella gestione della scuola, che avveniva in modo cooperativo. Poi un'altra guerra. Freinet viene arrestato, la sua scuola viene chiusa. Quando esce, nel 1941, ancora sorvegliato speciale, partecipa alla Resistenza. Riprende, poi, la sua opera di educatore e scrive diversi saggi.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 1966, l'attività prosegue grazie a Élise e al suo vecchio gruppo di lavoro. La sua scuola di Vence ora è divenuta statale. E in quella di Saint Paul il segno del suo passaggio è inciso sui muri, tappezzati da decorazioni in terracotta realizzate dai bambini. Mentre scatto qualche fotografia, mi ritrovo a immaginare il loro viso e le loro voci.