Durante le mie “chiacchierate” con proiezioni di immagini – chiamarle conferenze è un po’ pretenzioso – sulla Grande Guerra che ormai da qualche anno tengo nelle scuole della mia provincia o in altre occasioni e sedi, la parte finale è dedicata a ciò che il Primo conflitto mondiale ha lasciato nel periodo immediato alla sua conclusione e a ciò che di quel conflitto è rimasto ai giorni nostri.

Riguardo il primo aspetto non si può fare a meno di parlare di quei soldati che rimasero feriti nel corpo e nella mente, quelli che la medicina inglese definì soldati colpiti da shell-shock e che qui in Italia furono più prosaicamente definiti scemi di guerra; ovviamente non bisogna dimenticare i milioni di caduti, sepolti inizialmente nei piccoli cimiteri di guerra presenti lungo tutto il fronte, i cui resti furono poi traslati nei grandi sacrari; e ancora, non posso fare a meno di mostrare le cicatrici che le trincee, i camminamenti e i bombardamenti hanno lasciato sui campi di battaglia, così come è importante far vedere che è ancora possibile trovare oggetti d’uso comune appartenuti ai soldati o ordigni di morte, molti ancora inesplosi, che a distanza di anni hanno fatto e continuano a fare ancora vittime tra chi incautamente li raccoglie e li maneggia. E non solo oggetti ma anche resti di soldati periodicamente affiorano dal fango o dai ghiacciai che pian piano si stanno ritirando.

Tra tutti questi “lasciti” della Grande Guerra che normalmente descrivo ai miei ascoltatori, quelli che però suscitano più curiosità sono i modi di dire, certi comportamenti e usanze che la vita di trincea ci ha tramandato. Conosciuto ai più, per esempio, è il gesto scaramantico di non accendere tre sigarette con un solo fiammifero. Gesto che come è noto poteva in prima linea risultare molto pericoloso, in quanto alla prima sigaretta il “cecchino” (così veniva chiamato dagli italiani un tiratore scelto storpiando il nome dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe in Cecco Beppe e quindi in cecchino), si allertava, alla seconda prendeva la mira e alla terza… sparava, molto spesso con esiti negativi per il terzo fumatore.

Ma anche certi modi di dire attuali sono nati nelle trincee della Grande Guerra. “Avere le palle girate” per esempio deriva da un tipo di munizionamento da fucile realizzato artigianalmente dai soldati, che aveva appunto le “palle” girate. Si estraeva il proiettile, la palla appunto che deve il suo nome ai proiettili sferici usati nei fucili ad avancarica, dal suo bossolo e lo si rimontava capovolto: la minor stabilità della traiettoria era compensata dal fatto che quando questo proiettile colpiva il bersaglio, normalmente un soldato nemico, ne sbrecciava la carne provocando ferite difficilmente rimarginabili. E poiché, tra le tante assurdità di una guerra, questi proiettili erano espressamente proibiti dalle convenzioni internazionali, i soldati che le usavano e le preparavano erano considerati i più “fetenti” quelli da cui era meglio stare lontani, quelli che avevano appunto “le palle girate”. Per contro bisogna dire che gli austriaci usavano le così dette pallottole Dum-Dum, proiettili esplosivi che derivano il loro nome dall’arsenale britannico di Dum Dum nei pressi di Calcutta dove alla fine dell’800 furono realizzate per la prima volta questo tipo di pallottole.

Un’altra eredità del gergo di trincea è la locuzione “rompere le scatole” che non era altro che il comando che veniva dato ai soldati al momento di caricare l’arma, e le scatole da rompere erano quelle in cartone leggero e sigillate che contenevano i caricatori da sei proiettili calibro 6,5 del fucile mod.91 in dotazione alle truppe italiane, comando che veniva dato generalmente poco prima di un attacco… quindi una cosa decisamente fastidiosa!

Una parola invece che arriva direttamente dalla Grande Guerra è quella che noi italiani usiamo spesso per definire, non molto amichevolmente, la gente di area germanica, questa parola è… “crucchi”. Questo termine però non è tedesco e deriva direttamente dalla parola KRUH che in lingua slovena, una delle tante etnie che componevano l’esercito imperiale austriaco, significa “pane”, che era la prima cosa che i soldati sloveni appena catturati chiedevano ai soldati italiani, vista la mancanza soprattutto nell’ultimo periodo di guerra, di pane bianco tra le razioni che venivano loro distribuite. Anche l’usanza tutta italiana di iniziare la giornata bevendo una tazzina di caffè sembra derivi direttamente dalle trincee. Normalmente, soprattutto sul fronte isontino, il rancio arrivava nelle trincee di prima linea verso le 22.00 mentre il caffè arrivava dalle retrovie verso le 4.00 di mattina. E il bere questa bevanda alla mattina diventò un “rito” che i soldati italiani portarono in seguito nella loro vita civile.

Ma oltre ai modi di dire e a comportamenti particolari, molti oggetti usati in trincea furono in seguito “riciclati” nella quotidianità post bellica, come ad esempio il Trench, l’impermeabile reso famoso da Humprey Bogart nei suoi film, che non era altro che un impermeabile usato dagli ufficiali inglesi in trincea, in lingua inglese appunto “trench”.

Fin qui quello che dalle trincee fu riversato nella vita civile a guerra conclusa, ma è anche vero che spesso in trincee i soldati portarono qualcosa dalla loro quotidianità pre bellica, spesso per dare una parvenza di civiltà alla vita bestiale a cui erano costretti per esigenze di guerra. Una in particolare viene citata da Carlo Salsa nel suo bellissimo libro che consiglio vivamente Trincee – Confidenze di un fante pubblicato nel 1924, e fa riferimento a un carrettino che all’epoca transitava per le vie di Milano distribuendo caffè, più che altro una miscela nerastra calda ottenuta con i fondi dei caffè raccolti nei bar del centro, e che prendeva il nome di “Caffè del Genoeuc” (ginocchio) dall’usanza di appoggiare la tazzina, in mancanza di tavolini, sulle proprie ginocchia. Così lo cita Salsa descrivendo quella che era la situazione in cui si venivano a trovare i soldati nelle trincee del carso: (…) Anche il fondo su cui siamo sdraiati ha ogni tanto delle gibbosità più sode (i resti dei caduti delle battaglie precedenti). C’è a metà del camminamento, un ginocchio piegato che emerge: serve come punto di ritrovo durante la notte per la distribuzione del caffè e dei viveri, quando giungono. Alcuni soldati lombardi hanno colto l’occasione per riesumare un vecchio motto milanese: lo chiamano il “Caffè del Genoeucc”.

Per concludere possiamo dire che l’eredità che la Prima guerra mondiale ci ha lasciato non fu solo un nuovo assetto socio-politico dell’Europa, ma questo conflitto, il primo su scala mondiale, cambiò anche gli usi e i costumi della gente comune, il loro modo di vivere e di pensare, in un mondo che molti speravano migliore e che invece sotto le sue ceneri covava le braci per un'altra drammatica tragedia.