In una delle grandi stanze del palazzo di proprietà del professor Alvino Melodia si tenne in quella ancor fredda sera di Aprile, “il più crudele dei mesi”, un grande simposio.

I candelabri che da tempo, molto tempo, non erano stati usati per illuminare la sala davano all'insieme un aspetto caldo e coinvolgente; la solennità e la piacevolezza dell'ambiente contrastavano stranamente con i volti duri e risoluti dei convitati.

Uomini e donne di età diverse avevano già preso posto al lungo tavolo a capo del quale stava, come nella migliore tradizione aristocratica, il padrone di casa.

Non sarebbe certo stato difficile anche per un osservatore occasionale comprendere che non si trattava di una cena tra amici e neppure di un incontro di lavoro: l'allestimento del tavolo lasciava anzi piuttosto incerti sulle ragioni di quel banchetto.

Una lunga tovaglia di lino bianco scendeva fino a sfiorare il pavimento di piastroni in cotto di quel colore che un tempo si chiamava "sangue di bue". Non c'erano né piatti né posate: nessun genere di suppellettili ad eccezione di un calice di cristallo di fronte a ciascun convitato e di una grande caraffa colma d'acqua davanti al professore. Sul tavolo, a regolare distanza tra loro, erano disposte alcune ciotole piene di sale e dei vassoi colmi di pagnottelle rotonde impastate con la farina scura e segnate da un taglio a forma di croce che, durante la cottura, le aveva fatte lievemente spaccare al centro.

Alla destra del padrone di casa una sorta di tovagliolo, anch'esso di colore bianco, lungo e leggero, quasi una sciarpa. Il silenzio era profondo, colmo di intensità.

Un lieve ma ieratico cenno del professor Melodia fece volgere lo sguardo dei suoi ospiti verso il pianoforte al quale aveva nel frattempo preso posto un personaggio in abito di foggia inusuale: una palandrana color amaranto che copriva completamente lo sgabello sul quale si era accomodato il musicista lasciava vedere soltanto le sue mani già appoggiate sulla tastiera.

I capelli grigi che sfioravano le spalle e l'impossibilità di vederne il volto non consentivano di stabilire se si trattasse di un uomo o di una donna. Alcuni accordi fatti uscire dallo strumento e poi si udì la sua voce che certamente non avrebbe potuto sciogliere il dubbio sul sesso del personaggio tanto era intensa l'emozione provocata dalla misteriosa armonia che pareva avvolgerla. Non era propriamente un canto, ma un melodioso susseguirsi di parole che, pian piano, suscitava immagini ed evocava antiche atmosfere.

"Nella grande sala del palazzo di Micene" - così iniziava il racconto- "sono riuniti a banchetto gli aristocratici guerrieri vicini al principe. Tra loro un cantore si prepara ad intrattenerli con la narrazione delle gesta di antichi eroi. Basta tendere l'orecchio per udire la voce dell'aedo".

Ed ecco che, come per antico incantesimo, la sala di casa Melodia fu pervasa da una canzone:

Vieni accanto a me splendida Afrodite
che infondi il desiderio d'amore negli dei
e domini gli uomini mortali e gli uccelli del cielo
e tutti gli animali nutriti dalla terra e dal mare.
Aiutami a ricordare, guida il mio canto e rendilo amabile
.

Tutti ascoltavano affascinati quand'ecco che il professor Alvino, per la verità un po' bruscamente, pose fine alla dolce digressione per riportare su di sé l'attenzione degli ospiti.

"Questo" – disse - "era un tempo il compito del Proemio, l'inno alla divinità che faceva da preludio alla narrazione epica: invocare l'aiuto divino per sostenere la grande fatica della poesia".

E, alzando il tono della voce, aggiunse: "Prima di ricordare gli uomini benché si trattasse di straordinari combattenti, gli antichi non dimenticavano di celebrare gli dei e di renderli propizi richiamando la loro attenzione!"

In piedi, con un gesto da grande inquisitore, concluse: "Ben altro era allora il valore della parola che serviva a tramandare la memoria del proprio passato!"

La veemenza di quella affermazione sembrò per qualche istante espandersi in una sorta di eco. Poi gradatamente ritornò il silenzio. Furono pochi secondi, ma carichi di tensione come quelli che dividono l'ultima battuta del monologo conclusivo dall'applauso del pubblico.

Il professore versò l'acqua nel proprio calice. La versò sonoramente partendo dall'alto con gesto teatrale mentre un domestico provvedeva a riempire il bicchiere degli invitati. Quando tutti si furono alzati in piedi, levando il bicchiere, disse: "Lunga vita al Proemio!"

Fu allora che, mentre i ventun convitati, poiché questo era il loro numero, riprendevano posto, Alvino Melodia prese il lungo panno bianco appoggiato alla sua destra e, reggendolo con entrambe le mani quasi come un vassoio, si avviò verso uno dei personaggi seduti al tavolo.

La scelta cadde su una donna dai tratti delicati. Durante l'intera esibizione del Proemio aveva tenuto il volto appoggiato alla mano; con lo sguardo rivolto verso il basso, assorta, pensosa, sembrava cercare la solitudine pur trovandosi in una circostanza poco adatta all'isolamento meditativo.

Il professore ripiegò quella sorta di tovagliolo, lo pose sul tavolo alla destra di lei, poi si ritrasse lentamente, ponendosi alle sue spalle, opportunamente distante. La donna, con la ferma e consapevole sicurezza di chi ha studiato e ripensato a lungo la propria parte, prese dal vassoio più vicino una delle pagnottelle, ne spezzò un piccolo frammento, lo intinse nella ciotola del sale e, sempre molto lentamente, lo portò alla bocca.

I suoni abitualmente impercettibili di questi gesti erano invece enormemente amplificati dal totale silenzio in cui venivano eseguiti.

Il suo viso dolce era attraversato da una tristezza lieve eppure intensa. Non sarebbe stato facile stabilire quale fosse la sua età. I suoi occhi sembravano guardare lontano, contemplare qualcosa che gli altri non potevano vedere. Quando prese ad alzarsi lo fece con movenze così lente che quasi indusse gli altri invitati a dilatare il ritmo del proprio respiro per non turbare il compimento di quelle azioni che sembravano rimandare ad un rituale conosciuto.

La sua esile figura andava dipanandosi pian piano dall'abito di un verde smorzato dal tempo: non era difficile immaginare che fosse stato indossato in passato da una giovane fanciulla per una serata di gala.

Quando fu in piedi disse soltanto: "Il mio nome è Melanconia", e poi lacrime silenziose e pudiche, in armonia perfetta con il suo portamento, le impedirono di continuare, ma tutti colsero il senso profondo della sua tristezza tanto che la commozione prese anche gli altri convitati soprattutto quando la mano di Melanconia si atteggiò in un piccolo cenno di saluto che aveva in sé l'estenuata forza del commiato, come di chi parte per un lungo, lunghissimo viaggio dal quale non si è certi di tornare.

Traspariva una tale stanchezza da quell'immagine di donna che il giovanotto che stava accanto a lei non poté esimersi dall'aiutarla affettuosamente mentre tornava a sedersi al suo posto.

E volle fare ancora qualcosa per lei: tolse la rosellina gialla infilata all'occhiello della sua elegante giacca scura e gliela porse. Un gesto tenero e disperato, esteticamente sublime per chi lo avesse osservato astraendosi dal coinvolgimento emotivo.

E certo la suggestione della scena era aumentata dalla bellezza del giovane che aveva in sé qualcosa di inquietante; come se da una pittura vascolare fosse emerso per incantesimo un antico dio greco dalle fattezze perfette e avesse indossato abiti dei nostri giorni per un'occasione mondana.

L'impressione intensa provocata da quel personaggio non poté che aumentare quando il professor Melodia gli si rivolse dicendo: "Voglio ringraziare il giovane Eros che ha interpretato il desiderio di noi tutti di rendere omaggio alla nostra dolcissima amica".

Mentre pronunciava queste parole si avvicinò per riprendere il panno bianco e, dopo averlo nuovamente posto sulle sue mani, si mosse per andare verso un altro invitato.

A cura di Save the Words®

Continua il 9 Luglio...