Tutto il mondo non vale il giorno
in cui è stato dato ad Israele
il Cantico dei cantici
(Rabbi Akiva)

La semiosi ermetica si è manifestata a due livelli:
l’interpretazione del mondo come libro
e interpretazione dei libri come mondi
(Umberto Eco)

Il Cantico dei cantici è il testo antico più complesso, affascinante ed enigmatico (ancor più dell’Apocalisse), più avventuroso di qualsiasi romanzo, più ricco di qualsiasi poesia! Sembra voler assommare un gran numero di superlativi/maggiorativi, come già il suo titolo straordinariamente indica!

Per migliaia di anni teologi, critici, scrittori, intellettuali, devoti, appassionati si sono spaccati la mente per cercare di comprendere questo poema criptico, sfuggente, che appartiene ai libri sapienziali della Bibbia ma che rappresenta una realtà unica, differente non solo da qualsiasi altro libro della Bibbia ma senza uguali in tutta la letteratura di ogni tempo! Non siamo in grado neppure di concludere con certezza a quale genere di letteratura appartenga, né se possa parlarsi di “letteratura”. In certi passi non è neppure chiaro chi stia parlando o in che contesto ci si trovi né a chi ci si rivolga! Non esiste infatti un soggetto narrante né un quadro unitario di riferimento, né abbiamo certezze neppure a livello strutturale mentre la sua stessa ripartizione in capitoli è una convenzione postuma, quasi inutile.

Il mio approccio si è caratterizzato, in uno spirito che vorrebbe avere “l’ambizione dell’umiltà”, per una piena adesione a certi dati letterali, da ri-valorizzare e che fra poco esporrò, e in piena sintonia con un’antica tradizione rabbinica che lo avvicina alla spiritualità del Tempio di Gerusalemme. Il titolo va profondamente meditato e appare già quasi inaudito per Israele in quanto si pone con certezza quale testo, inno, “cantico” che supera qualsiasi altro, e presenta un “nome non nome” che sembra la parafrasi dell’altro luogo inaudito e quasi innominabile: il “Santo dei Santi” del Tempio. Questo dato va valorizzato insieme all’altro aspetto letterale dato dalla ricorrenza espressa per sei volte del nome del re Salomone, l’edificatore del Tempio, alluso anche nel nome della Sulammita e nell’evocazione finale della pace da parte dell’Amata. Altro dato molto prezioso a rafforzo di questo approccio è quel passo in cui l’Amata viene descritta: bella e leggiadra come Gerusalemme.

Il linguaggio del Cantico è un linguaggio figurato, figurativo, ipermetaforico e spesso anche un “metalinguaggio”, una lingua metamorfica in quanto accade che si sdoppi semanticamente (come nell’ambiguità fra la figura del re e quella dell’Amato, spesso sovrapposte), che utilizzi immagini simbolico-metaforiche già date costruendo con esse nuovi immaginari e combinazioni narrative e che lasci aperti più livelli di lettura tutti includibili in un'allusività diffusa. Come può esistere un uso metaforico di una metafora? Su cosa reggere questo Tempio di linguaggi figurativi, di rappresentatività indiretta?

Siamo in presenza di un testo strutturalmente iniziatico, cioè di un testo che va accettato totalmente nel suo senso sfuggente per poter prender parte alla sua nuova unica lingua. È il Cantico che deve educarci alla sua comprensione. La lingua del corpo e dell’amore, così potente in questo testo, non deve farci dimenticare che si tratta sempre di un linguaggio figurato, mediato, simbolico: una lingua che parla sempre anche di altro, in modo metodico, non per intenzioni di mera enfasi poeticizzante. Quella che ignoriamo è appunto la “chiave dei registri”, cioè il codice ritmico che ci dica su quale livello siamo in quel passo, se quell’immagine sia allegorica o allusiva, e in che ambito operi quel dato rinvio. Ritengo che uno dei pochissimi interpreti che sia riuscito grazie alla sua umiltà e saggezza a inquadrare correttamente il Cantico sia Don Aldo Castagnoli, un quasi sconosciuto esegeta che ha saputo affrontare finalmente con serietà la pregiudiziale questione del metodo ermeneutico, spesso elusa, partendo giustamente dal dato ineludibile dell’essere il Cantico Sacra Scrittura (di tipo sapienziale) e qualificandolo quale “mandala iniziatico”, quale percorso di ascesi riservato ai componenti di una confraternita (forse quella dei Recabiti) dedicata alla sapienza divina e ai misteri d’amore.

L’unica caduta metodologica del Castagnoli, paradossalmente simile alle “distrazioni ermeneutiche” del tanto lui tanto criticato Ravasi, sta nel parlare di “pastorello” per la figura dell’Amato, cioè nel cadere nella tentazione di una ricostruzione “sociologica” che oggettivamente appare infondabile, arbitraria, ideologica. L’unico tessuto sociale ricostruibile in modo coerente dal testo è quello proprio di una ritualità tipica del Tempio e di chi vi serviva. Paradossalmente è proprio l’antica tradizione cattolica del servizio della Madonna al Tempio, a cui sono state dedicate numerose stupende opere d’arte (fra cui una del Carpaccio, ora in Pinacoteca di Brera), a ricordarci l’importanza concreta di questo fenomeno socio-religioso, che coinvolgeva una fase della vita femminile e implicava una selezione iniziale e finale, topos, quello selettivo, così centrale nel nostro poema.

Questo tema sfocia nell’altro paradigma, quello dello Sposalizio della Vergine con Giuseppe. Ricordiamo il celebre quadro di Raffaello presente a Brera. Curioso che nessuno abbia accostato queste antiche tradizioni di tipo rituale/templare/nuziale alla spiritualità del Cantico dei cantici. Eppure è l’unico modo per capirci qualcosa. Castagnoli esce dallo scenario ermeneutico essenziale quando confonde l’immaginario pastorale con il tema e il contesto pastorale. La lingua del Cantico dei cantici utilizza varie immagini pastorali ma non è un inno o un poema pastorale, così come esce dal testo Ravasi quando parla di un racconto amoroso svolto per immagini teologiche mentre si tratta al contrario di un racconto per immagini amorose di un tema invece sacrale, sapienziale, divino, che assorbe, abbraccia e oltrepassa una semplice cerimonialità sponsale quale rito sociale.

Da parte mia per prima cosa ho cercato di riassumere tutti i possibili riferimenti e allusioni testuali all’immaginario e alla vita del Tempio. Il risultato è tale che, per ora, i “mondi del Tempio” sono gli unici che riescono, insieme al linguaggio amoroso, a “tenere in unità” e coerenza discorsiva questo meraviglioso testo spirituale. Ripercorriamone le principali costellazioni semantiche. Il primo “arcipelago templare” lo troviamo nel tema del vino (allusione al sangue, al sacrificio e alla benedizione), dei profumi e del Nome, essenziali per le ritualità sacrificali del Tempio. Anche il gioco di parole fra nome (sem) e olio (semen) (olio effuso è il tuo nome… correremo verso il profumo dei tuoi unguenti) rinvia al Tempio consacrato da Salomone al Nome di Dio e al profumo quale immagine del sacrificio a Dio.

I profumi dominano il Cantico nella citazione di molteplici essenze (mirra, croco, nardo, canna, cinnamono, incenso) e questo aspetto sembra rinviare all’offerta mattutina e serale compiuta sull’altare dei profumi e la stessa frequente ricorrenza del nome “Libano”, rinvia simbolicamente all’incenso (quello rituale era composto da un mix di numerose essenze) il cui profumo emana dalle stesse vesti dell’Amata, in quanto simbolicamente il termine “Libano” indica l’incenso.

L’altro topos testuale lo troviamo nel tema del velo, delle tende e dei padiglioni dell’Amata e dei pastori (nera sono ma di bella forma…) dove la stessa Amata sembra assimilarsi a un tempio mobile sull’archetipo della Tenda della Testimonianza, e la cui pelle mutata, scurita (decoloravit) sembra alludere all’assimilazione dell’anima al Sole della Sapienza. La bocca dell’Amata è paragonata a una benda scarlatta (vitta coccinea) e il sacerdote vestiva con una benda sulla tunica mentre una cordicella purpurea era connessa alle cortine che dividevano il Santo dal Santo dei Santi. Le visioni contemplative nelle quali i due protagonisti si lodano a vicenda abbondano di metafore architettoniche che bene si adattano alle decorazioni del Tempio e ai suoi materiali: il cedro e il cipresso della stanza nuziale e, a livello di decorazioni, similmente per quanto riguarda: palme, melograne, leoni, nocciole (nei lucernieri della Menorah), gigli; come pure il tema del letto/lettiga/baldacchino e divano del re, di Salomone e dell’Amata, va considerato quale figura del Tempio quale luogo di riposo della Shekinà.

Un'altra coagulazione semantica templare è evidenziabile nell’immagine della roccia e del muro divisorio, cioè la parete che divideva il settore delle ancelle da quello maschile fra chi serviva nel Tempio, nonché Israele dalle nazioni. La capra selvatica a cui viene assimilato l’Amato è indizio templare per quanto riguarda l’origine animale dello shofàr che annunzia il Sabato, la Pasqua, e il Giubileo, nonché le offerte del mattino e della sera. Il monte degli aromi potrebbe essere lo stesso Monte Sion e il tema del latte e del miele rinvia al Tempio quale Terra promessa della fede e del culto. L’unicità dell’Amata rispetto alle 60 regine e alle 80 “concubine”, nel senso che riposano dove riposa la gloria di Dio (che ho tradotto: veglianti in quanto il numero 80 indica phe, cioè: “soffio”, cioè preghiera) indica l’unicità sacrale di Gerusalemme rispetto alle altre città di Israele e a quelle sottomesse. Anche il topos delle immagini acquee (le piscine di Hesebon, sorgente di giardini, pozzo di acque vive) può trovare un riscontro templare nel Mare di rame del Tempio, nelle abluzioni sacerdotali e nel lavaggio delle vittime sacrificali.

In questo approccio che prediligo per cui il Cantico si fonda sulla celebrazione della Sapienza divina e sull’esaltazione di riti-cerimonie proprie di chi serviva Dio nel Tempio può trovare adeguata spiegazione anche uno dei passi più enigmatici del poema: il “notturno” in cui giunge l’Amato ma l’Amata manca l’incontro. Si può trattare di un “passaggio” di tipo misticamente pasquale oppure di un turno di servizio notturno nel Tempio per il quale la novizia non si dimostra all’altezza e per tale motivo “perde” il mantello, cioè viene disonorata nella sua dignità.

Il tema invece del “sonno che non deve essere disturbato” ricorda la tradizione antica dell’incubatio e il tema biblico del sogno e della voce notturna che viene da Dio in Samuele. Uno dei passi più difficili da capire è il paragone delle chiome del capo dell’Amata alla porpora del re vinta dalle scanalature. Anche qui potrebbe risultare efficace la spiegazione templare dello scorrere del sangue sacrificale (la porpora) nelle scanalature dell’altare del sacrificio la cui funzione è proprio quella di “vincere” (convincere) la benevolenza di Dio.

Il passo che rappresenta la “prova del nove” della “resistenza ermeneutica” del Cantico è l’ultima sezione in cui viene presentato all’improvviso un nuovo personaggio, la “sorella”, senza che tutto il testo precedente possa in alcun modo aiutarne la comprensione. Tentare di leggere questa figura in senso letterale e in un contesto psicosociale, come ha tentato di fare Gianfranco Ravasi, il più grande compendiatore cristiano del Cantico dopo il seicentesco Cornelio a Lapide, mi sembra frustrante e porta al risultato di configurare un corpo estraneo dentro un poema figurato. Ravasi per un “eccesso di cultura” ritengo si “perda” nei dettagli, cioè accoglie numerose diverse letture di tutti i particolari del testo ma abdica alle scelte fondamentali per la sua comprensione complessiva, sminuzzandolo in innumerevoli frammenti autoreferenziali. Così facendo si riduce la profondità e la singolarità del testo a un esercizio di “retorica sull’amore”, dispendiosa e dispersiva come ogni, pur sublime, retorica. La sua opera esegetica, comunque mirabile, rischia di appesantire il testo di un’armatura plumbea di corredi critici che smarriscono il senso complessivo dell’andamento narrativo.

Il mio approccio, più socratico, ricerca al contrario in primo luogo ogni traccia di sviluppo semantico tramite una disamina interna comparativa sistematica e progressiva, tendente alla ricostruzione di un tessuto connettivo. Proviamo ad esempio a ridurre l’interpretabilità della “sorella” dei due amanti a tre essenziali paradigmi: 1) la sorella quale immagine della Sinagoga rispetto al Tempio di Gerusalemme (i seni sarebbero le colonne del Tempio e le tavole della Legge, alluse anche dalle tavole di cedro), 2) la “sorella” quale figura dei futuri popoli che riconosceranno Dio tramite il culto del suo Nome nel Tempio di Gerusalemme, 3) la “sorella” quale novizia nei riti templari-nuziali riservati a chi serve nel Tempio, di giorno e di notte, al mattino e alla sera, per cui questo spiegherebbe la complicità e l’unità dei due Amanti rispetto alla “sorella” da iniziare e il tema nuziale-amoroso sarebbe un classico esempio del tipico linguaggio figurato di Israele (Isaia, Osea) dove il matrimonio è immagine importante dell’alleanza fra Dio ed Israele. Non a caso alla fine del poema il tema ricorrente della vigna/vigne, con cui inizia il poema, giunge al suo naturale coronamento spirituale nel rispecchiamento armonioso e unitario fra la Vigna di Salomone e la Vigna dell’Amata.

Continua il 14 Agosto.