Nessuno tra i mortali, né indigeno né straniero,
si era mai inoltrato per quella via, o ne aveva oltrepassato la soglia;
lo impedisce infatti la terribile dea regina
che ispira furore rabbioso nei suoi cani dagli occhi infuocati.
Nella parte più segreta della cinta muraria c’è un bosco sacro
ombroso d’alberi rigogliosi, nel quale verdeggiano molte
piante d’alloro e di corniolo e platani svettanti.
In esso vi sono prati che proteggono umili radici:
l’asfodelo e il caprifoglio e il grazioso capelvenere
e il solano e il cipero e la fragile verbena
e la salvia e l’erisimo, il ciclamino viola,
la lavanda e la peonia e il rigoglioso policnemo
e la mandragora e il polio e ancora il fragile dittamo
e il croco profumato e il nasturzio e poi il leontopodio
e lo smilace e la camomilla e il funereo papavero
e l’alcea e la panacea e il carpaso e l’aconito
e molti altri farmaci di questa regione.

(Argonautiche Orfiche, vv. 907-923)

Un giardino inviolato, ricco di fragranti essenze medicinali, è il penetrale segreto della dea Artemide. Ci troviamo sul limitare di un orto mistico, descritto in un poema del V secolo d.C., le Argonautiche Orfiche, che racconta il viaggio avventuroso e iniziatico degli Argonauti, un gruppo di eroi alla ricerca del favoloso vello d’oro. Delle tante versioni letterarie della leggenda, qui è presentata quella “orfica”, cioè narrata da Orfeo, che fu spettatore di quei fatti meravigliosi. Il giardino della dea si spalanca all’improvviso lungo il cammino degli Argonauti, in uno scenario sacro e spaventoso al contempo. Sette cinte di altissime mura e tre possenti portali di bronzo lo proteggono, al di là dei quali appare il simulacro della padrona di quei luoghi, che si erge imponente sullo stipite: eccola Artemide, la Custode delle Porte! Valicare la soglia della sua casa è concesso solo a chi sia stato partecipe dei suoi riti iniziatici; è lì che si trova il tesoro agognato, il vello, la ricompensa suprema.

Ma nel gruppo degli argivi si cela una grande risorsa: Medea, la maga che per amore di Giasone ha abbandonato famiglia e patria per seguire il nuovo compagno nella sua impresa. A lei, che è adepta di Ecate e conosce le arti occulte, spetterà il compito di addolcire la dea e di placare il drago custode del tesoro, mescolando i farmaci di cui è esperta. Grazie ai suoi gesti sapienti, ai suoi incantesimi e alle radici malefiche si spezzano i chiavistelli che serrano le porte bronzee e subito tutto l’incanto del bosco sacro si sprigiona di fronte ai loro occhi. Il cuore del giardino è un paradiso di fragranze e virtù officinali che il poeta rivela in un elenco botanico sistematico che sembra uscito dalle pagine di un erbario, ma che possiede anche l’ipnotica cadenza di una preghiera incantatoria. Come il testo rivela subito dopo, al centro del bosco si staglia il tronco possente di una quercia e appeso a un grande ramo c’è il vello, sorvegliato da un serpente spaventoso, funesto guardiano; come il drago Ladone, custode del giardino delle Esperidi, il rettile è instancabile e insonne, si avvolge alla base del fusto e impedisce la profanazione.

Intorno all’albero sacro germogliano ben venticinque diverse specie di erbe officinali e fiori, tutte riconducibili a un preciso archetipo; ognuna, se interrogata nella sua natura più profonda, svela significati e simboli di grande densità filosofica. Panacee e veleni intrecciano steli e fragranze, perché il giardino sacro racchiude la forza salvifica e il potere di morte che appartengono all’essenza stessa della natura. C’è la mandragora, erba di Circe, il letale aconito e il leontopodio utile per le pozioni magiche, il carpaso che induce al sonno e il papavero che porta l’oblio. Poi c’è il croco, fiore nuziale; dalla sua corolla si liberano due fragili filamenti che fluttuano al tocco della brezza simulando l’abbraccio di due amanti. E ancora l’asfodelo, fiore ultraterreno, panacea medicinale e alimentare; il ciclamino, antidoto contro i filtri malefici e fiore amico delle donne: come tutti i bulbi appartiene al mondo sotterraneo, ma quella forma circolare, che suggerisce l’immagine di un utero, ne sancisce l’autorità di farmaco ginecologico.

Seguono molte erbe salvifiche e sante: la peonia, la veneratissima verbena, la panacea, la salvia, che porta nel nome la vocazione alla “salus”; il solano che porta “solamen”, sedazione e conforto. E poi la lavanda delle spose, l’umile camomilla “matricaria”, protettrice della “matrix”, regina delle piante care alle donne. E altre ancora: il capelvenere, il caprifoglio, il polio che attira la fortuna, lo smilace, il nasturzio e l’afrodisiaca alcea. Stranamente, non sono citate due piante che la tradizione annoverava tra quelle sacre ad Artemide: l’artemisia e il lentisco. La prima porta il nome della dea, e godeva di numerosissimi impieghi nella medicina femminile, in particolare per la gravidanza e il parto, come si conviene a una pianta legata a colei che con l’epiteto di Ilizia veniva invocata dalle partorienti in travaglio: un’erba che a buon diritto era annoverata tra le cosiddette “matres herbarum”.

Anche il lentisco era noto per i suoi impieghi nei disturbi ginecologici ed era consacrato alla memoria della più amata fra le compagne di Artemide, la ninfa Britomarti, in realtà antica personificazione della dea stessa. Questa, chiamata anche Dittinna, era una cacciatrice del monte Ditte, a Creta; qui cresceva un’erba autoctona dalle molte virtù farmaceutiche, il dittamo. Una pianta rara e difficile da trovare, ma capace di attenuare i dolori del travaglio e di rendere più facile il momento della nascita. La tradizione tramanda che le donne avessero dedotto la vis di questa pianta osservando il comportamento delle capre montane, le quali, quando venivano ferite da una freccia, cercavano spontaneamente il dittamo e lo ingerivano, provocando l’eliminazione del corpo estraneo. Da qui l’intuizione delle levatrici di sfruttare la forza espulsiva di questo portento vegetale inglobandolo nella farmacopea della medicina delle donne.

La natura parla un linguaggio poetico e immaginativo, al quale l’uomo può accostarsi con sguardo puro e con la rispettosa devozione dovuta alle cose sacre. L’orto favoloso di Artemide pullula di messaggi, ammonizioni e suggerimenti. L’umiltà e la grandezza di erbe e fiori richiedono cuore aperto e capacità di decriptazione: è il requisito richiesto dalla dea per sciogliere i catenacci dei cancelli di bronzo e schiudere i segreti del suo orto favoloso.