I supermercati di oggi crescono, s’ingrandiscono, si fanno immensi, tanto che il linguaggio dell’uomo non riesce più a tenere il ritmo con la loro espansione e non ha più superlativi, iperboli o neologismi che riescano a rappresentare il loro giganteggiare sempre più esagerato.

Le insegne, del tipo ipermercato, megastore, maxistore, sembrano appartenere già al passato. I nomi comuni e gli aggettivi di oggi quasi non ce la fanno più a trovare la forza per rendere l'idea della grandezza degli spazi nei quali trascorri, quasi in gita, un'intera giornata a far spese, caricando un capientissimo carrello di tutto l'inutile che abilissimi specchietti per le allodole, disseminati sul tuo percorso, ti fanno comprare. Perché c'è tutto di tutto in quantità straripante, con l'illusoria possibilità di sentirti assolutamente libero da qualunque condizionamento e padrone della tua tasca, perché puoi comprare anche una sola mela, pesandola e confezionandola da solo. È quando torni a casa, che ti rendi conto di quanto superfluo ti sia caricato, compresi frutti esotici dal sapore non sempre gradevolissimo, spezie e aromi che non userai mai, utensili di uso improbabile come lo snocciolatore per le olive, il salvagocce per le bottiglie, la grattugia per lo zafferano, il trita tartufo.

Per spiegare la proliferazione del superfluo alcuni storici indicano tre progressive tappe; il 1852 quando Aristide Boucicaut crea a Parigi il primo grande magazzino Au Bon Marché; il 1902 quando un artigiano francese inventa ampie vetrine espositive con lastre di vetro in grado di resistere a forti sbalzi di temperature; il 1938 quando Sylvian Nathan Goldman brevetta il carrello pieghevole su rotelle, assai più capace e comodo del cestino da imbracciare. Così l'abbondanza delle merci, i prezzi spesso falsamente convenienti, i grandi espositori, le trovate pubblicitarie hanno generato un’endemica bulimia dell'acquisto. Poi è nato il grande magazzino universale in rete nel quale ordini dal computer di casa, senza imbottigliarti nel traffico, senza il patema del parcheggio, senza la noia delle file alle casse e dove puoi comprare tutto quello che ti serve, dai dolciumi alle macchine d’epoca.

Ora c'è Amazon. Il Seattle Times ha recentemente dato la notizia che a Natale del 2015 nei 20 principali magazzini di Amazon nel mondo si contavano, per il movimento della merce, circa trentamila robot che affiancavano 230.000 umani. Nata nel 1995 come libreria on line, Amazon vende ormai praticamente tutto. Sul suo sito ufficiale è scritto: “Prezzi bassi su milioni di prodotti”. Puoi acquistare e spendere, diventare affiliato e venditore. È veloce, efficiente e conveniente. A guardare le foto dei suoi depositi davvero vengono le vertigini.

Com’erano diversi, però, i grandi magazzini degli anni Cinquanta e Sessanta! Ci andavamo mano nella mano coi nostri genitori. Tutto ci piaceva, ci stupiva e ci divertiva. E che patemi infantili all'inizio dell'anno scolastico, quando erano esposte in bella evidenza le ultime meraviglie per la scuola: diari, lapis colorati, cartelle, penne stilografiche, portapenne. Andarci era quasi un avvenimento, perché non erano numerosi come oggi, si trovavano spesso distanti da casa e non sempre avevano la convenienza del prezzo che promettevano. Quando eravamo spesso in giro con le nostre mamme per la spesa, se non si aveva il tempo per arrivare a un grande magazzino si ripiegava spesso sui Coloniali.

I Coloniali avrebbero dovuto vendere particolari merci e derrate, come caffè, cacao, cannella, spezie provenienti da paesi asiatici, americani e africani, dove gli stati europei avevano colonie. Il termine Coloniali è sopravvissuto alle colonie, e sopravvive in moltissime insegne, spesso vintage, nei nostri centri storici variamente abbinato a Colori, Drogheria, Alimentari, qualche volta, addirittura, a Generi Diversi. Se fate una passeggiata in rete, troverete tantissime e bellissime immagini di vecchi negozi di coloniali, alcuni ampi e sontuosi, altri più dimessi e piccoli, ma sempre pieni zeppi di merce. Alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso erano ancora assai numerosi e vi si vendeva un po’ di tutto.

Nel mio quartiere, nella zona più antica, ai tempi della mia infanzia, ce n’era uno rimasto leggendario: un piccolo negozio con un ingresso sovrastato da un architrave di marmo illuminato di sera da una serpentina verde corsiva: Coloniali. Sembrava ancor più dimesso, affiancato com’era, al monumentale androne di una vecchia villa settecentesca un po’ decrepita, dove era sistemata alla men peggio la scuola elementare. Nessuno in zona chiamava quel negozio “Coloniali”; per tutti era “da Don Mimì”. Da lui tutto costava pochissimo e tutto si poteva comprare sfuso in dosi contenutissime: zucchero, caffè, farina, olio e perfino il sapone per i panni, una pasta gialla posta in un grosso bidone nero davanti all’ingresso. Don Mimì, gran sacerdote di quel luogo, era un vecchietto piccolo di statura sempre chiuso in un camice nero, la testa coperta da un inseparabile berretto grigio, gli occhi pressoché invisibili dietro spessissime lenti. Parlava poco e sorrideva molto. Era velocissimo nel servire la merce, nel ritirare i soldi e dare il resto.

Non si riusciva a vedere il soffitto di quel locale perché vi erano appese innumerevoli mercanzie: cestini, scope, spazzoloni, pentolini. Don Mimì raggiungeva tutto quello che i suoi clienti chiedevano con una lunga asta dotata di un gancio. Da sotto il bancone tirava fuori, di volta in volta, la saponetta, la bottiglietta di brillantina, la spagnoletta di cotone, la lametta da barba, il tubetto di dentifricio, le bustine per l'acqua frizzante, il barattolo di coccoina, la scatoletta di lucido per le scarpe. Io, come tutti gli alunni della scuola elementare, ero suo assiduo frequentatore. Quel negozio aveva tutto quello che potevamo comprare facendo la “cresta” sullo stanziamento quotidiano per il foglio protocollo e il pennino, o rinunciando alla brioche della vicina panetteria. C’erano sul bancone, in bella evidenza, barattoli di vetro tentatori con le più attraenti leccornie: torroncini scuri e dolcissimi, piccole giuggiole gommose e coloratissime, bomboloni di zucchero gialli o rosa sorretti da asticelle di legno come i ghiaccioli, e le leggendarie barchette di liquirizia.

Prima di entrare in scuola o all’uscita, senza l'occhio vigile dei genitori perché a scuola ci andavamo quasi tutti da soli e a piedi, irrompevamo chiassosamente nel negozietto. Don Mimì, assai più autorevolmente dei nostri maestri, ci teneva disciplinatamente in fila ad attendere il turno per scegliere la leccornia o il piccolo accessorio per la scuola. Ci trattava alla stessa maniera degli adulti. E per questo lo adoravamo. Con noi era pazientissimo non solo per la consumata abilità di venditore, ma anche perché, col tempo l'abbiamo capito, con noi bambini si sentiva investito di una vera missione: a metà strada tra didattica e svago. Nella vetrinetta esterna quel mago non teneva le spezie, ma piccoli giocattoli economici: la trottolina di legno con la quale ci sfidavamo nel cortile della scuola, all’uscita dalle lezioni, lo yoyo di plastica che usavamo anche in classe facendolo salire e scendere sotto la tavoletta del banco, la palla di pezza di segatura con l’elastico che era uno sfizio da morire lanciarla sulla nuca del compagno del banco davanti e ritirarla fulmineamente, prima che il malcapitato potesse protestare e denunciarci alla maestra.

Quel negozio era molto importante per noi, punto di rifornimento delle cose necessarie alle nostre animatissime transazioni per atti di pace, sempre provvisori: dopo il litigio, per esempio, per la troppo vigorosa cartellata in testa, con la quale era stato vendicato il proditorio colpo alla nuca con la palla di segatura. La pace era sempre suggellata da uno scambio alla pari: una matita per due pennini, un bombolone di zucchero per due barchette di liquerizia, lo yoyo di plastica per la trottolina di legno. Quel Coloniali aveva orari incredibili: apriva prestissimo e chiudeva tardissimo, pronto a venire incontro a emergenze di ogni tipo delle famiglie circostanti. Don Mimì era in grado di fronteggiare le più impensabili esigenze, perché in quel negozio così piccolo aveva stipato veramente di tutto.

Alla fine, noi bambini lo preferivamo al grande magazzino, perché c’era Don Mimì a servirci, a farci sentire importanti, a trovare quello che ci serviva, ad accontentarci sempre. Oggi rimpiangiamo il tempo che vi si perdeva, le discussioni per il rispetto della fila, l’attesa del turno e, soprattutto, il suo clima, che non era quello dei condizionatori dei supermarket di oggi, ma dell’aria familiare e amica che vi si respirava.