C’è un misterioso giardino lungo le coste dell’Oceano, che appartenne un tempo lontano a una grande dea e che fu lasciato in dono a una più giovane erede, Era, la sposa di Zeus. È un paradiso di pura emozione, ricco di ogni tipo di meraviglie vegetali: un tempio arboreo che per colonne ha tutti gli alberi sacri agli dèi e per suolo terra prolifica di fiori delicati e di erbe salutari. Una fragranza consolante satura l’aria, come incenso che vapora dagli altari, e nei prati adiacenti il dio Helios lascia pascolare ogni sera i cavalli del carro solare, mentre il disco si tuffa nelle acque marine lasciando spazio alla volta stellata e alle tenebre della notte. Poco lontano, il possente titano Atlante regge con sforzo indicibile il globo del mondo.

Custodiscono questo orto sacro le tre ninfe Esperidi, le fanciulle della sera, con i loro pepli fiammanti dai mille ricami. I loro nomi ricordano il malinconico rosseggiare del tramonto: Egle, "la Radiosa"; Eritheia, "la Rossa"; Espera "la Sera". Con voce chiara intonano inni, vegliano sui tesori del giardino in rigoglio e custodiscono il grande melo dai frutti dorati, che campeggia superbo nel centro ed emana tutta la maestà di una divinità a cui inchinarsi. I nodi e i profondi solchi del tronco raccontano una saggezza antica di millenni, ma il baluginare delle foglie dorate al soffio dello zefiro celebra la leggerezza della vita; molti frutti ne gravano i rami, ognuno lucente come l’astro quando spegne il suo ardore nel manto fresco dell’oceano. Una forza inspiegabile si sprigiona da quei frutti, spirituale e terrena insieme: una vaga intuizione della vera felicità, oblio dai mali e tregua dalle preoccupazioni; ne nasce un desiderio irresistibile di raggiungerla, spiccando il pomo dal picciolo.

Era, la padrona, aveva scoperto che le tre ninfe si erano abbandonate alla tentazione di cogliere quei frutti perfetti e proibiti, e si era proposta di cercare un guardiano più fedele: l’aveva trovato in Ladone, serpente immortale partorito dalla terra, drago insonne e incorruttibile dalle cento teste; il nuovo custode si era sistemato tra le radici e, abbracciando il tronco con le sue spire sinuose, salvaguardava l’integrità dei frutti divini. Ma il destino volle che un mortale giungesse in quelle terre mistiche. Non un uomo comune, bensì il più grande eroe di tutti i tempi: Eracle, che Era stessa perseguitava da lungo tempo, infliggendogli compiti massacranti: dodici difficilissime imprese per conquistare il premio dell’immortalità, che gli spettava in quanto figlio di Zeus. Eracle stava appunto compiendo la penultima di queste celebri fatiche quando giunse nel giardino della dea. Per suo ordine doveva cogliere e riportare al re di Micene Euristeo tre frutti, eludendo il terribile guardiano. Uccise con facilità Ladone, con una sola freccia ma infallibile, perché intrisa di un veleno potentissimo e letale; in quanto alle mele, convinse il gigante Atlante a chiederle in sua vece alle ninfe Esperidi, alle quali era legato da antica amicizia, mentre lui si offriva di dare sollievo, per il tempo necessario, al compito estenuante di reggere sul dorso la smisurata sfera della terra.

Un eroe, un albero e un serpente sono i protagonisti emblematici di questo mito e svelano i contenuti profondi di una trama che connette forze potenti e ripropone l’eterna sfida dell’uomo per ottenere la conoscenza. L’albero sacro è il grande totem che connette le energie vitali della natura: vigoroso antenato oracolare, in quanto detiene la conoscenza dei destini dei mortali, è l’elemento unificatore tra le forze telluriche e gli infiniti spazi celesti, e possiede radici che dominano le profondità e chiome che danzano ai venti. I suoi frutti sono promesse di nutrimento, alimento fisico e psichico; la sua verticalità connette ciò che sta in alto con ciò che sta in basso, e l’uomo, che è carne e materia, lo ammira dal basso, ma brama di scalarne le altezze.

Nell’immaginario di tutte le culture, l’albero sacro è abitato da emblematiche presenze. Tra queste il serpente, figlio dell’elemento tellurico, si avvolge a spirale alla base del suo tronco o ne percorre sinuoso i rami. Velenoso tentatore e antagonista nel pensiero comune, in realtà antichissimo ricettore di forze psichiche, veicolo di rigenerazione, guarigione e evoluzione spirituale, è l’irrinunciabile interlocutore dell’essere umano, e il suo abbattimento schiude l’accesso al tesoro mistico e al successivo livello di coscienza. Eracle è un eroe fortemente legato alla dimensione del femminile. Risponde ai comandi di Era, che decide quali prove imporgli: è il servitore della dea, ma il suo nome, “gloria di Era”, include il grandioso progetto che essa ha in serbo per lui. È lei la regista del viaggio iniziatico dell’eroe e ne guida sapientemente i passaggi con l’apparente crudeltà di una persecutrice, in realtà con l’apprensione di una madre. Lo conduce a spingersi nel suo più recondito sacrario, il giardino delle Esperidi, creato all’origine del mondo da Gea, la Madre Terra, e in seguito consegnato a lei, sposa di Zeus; un dono che ha il sapore di un lascito mistico, da una grande divinità primordiale alla sua erede olimpica.

Queste mitologie hanno già alle spalle un’elaborazione secolare, forse millenaria, di cui sono prodotti in un certo senso raffinati rispetto alle forme più rozze e arcaiche dei culti arborei. I frutti dorati del melo sacro diventeranno terreno di sfida fra le divinità femminili più potenti dell’Olimpo: insieme a Era, Afrodite e Atena se ne contenderanno il possesso nella celebre gara risolta dal giudizio di Paride. A livello più profondo, sono tre aspetti archetipici della femminilità a contendersi il primato, in una sfida giocata per la supremazia tra seduzione, castità coniugale e doti dell’intelletto. Il potere prorompente dell’alchemica Afrodite strapperà il primato arcaico di Era; eppure sarà Atena l’ultima depositaria dei frutti sacri, perché a lei Eracle deciderà di affidarli, una volta conclusa la prova iniziatica. Le dee, frammentate rappresentazioni dell’antica Dea Madre, ritrovano, nella perfetta sfericità del frutto sacro, l’unità della loro natura più autentica; con esse anche l’uomo è giunto a una riconciliazione, e assapora la quiete del riposo prima di affrontare la prova successiva.