Il No di Alfredo Oriani, con le sue due edizioni (1881 e 1894), fu, con Al di là, il romanzo di maggior successo di pubblico dello scrittore romagnolo, ma a quale pubblico era effettivamente indirizzato e con quale scopo? È stato scritto che la protagonista, Ida, è una sorta di “Justine nata dalle viscere della provincia romagnola impastata di bestemmia, di anarchismo, di lussuria. Nelle sue vene senti scorrere un’aggressività espressiva degna del feuilleton …”.

Allora, possiamo dire che la scabrosità di certe descrizioni, l’insistenza sulle perversioni più crude, insomma, il contenuto pornografico dell’opera fu voluto per raggiungere un tipo di lettore attratto soprattutto da interessi voyeuristici e scandalistici? Qui si ripropone la sempre delicata e controversa definizione di “pornografia”, se per essa s’intende, non un sottogenere letterario di consumo, ma un “contenitore” di scene, di situazioni, di personaggi crudamente e direttamente legati al sesso, allora da Aristofane a Pasolini, non mancano gli esempi di capolavori legati a questi contenuti.

Nel caso dell’Ida di No, il personaggio agisce coerentemente con la sua indole, che vedeva nel sesso una forma di strumento di sopraffazione e di vendetta, in modo del resto consono con la visione orianiana dell’inestinguibile incomunicabilità tra i sessi. E in questo senso vanno le scene più perverse, come quelle della seduzione di Rocco, un povero ragazzo deforme che la protagonista attira nella sua camera: “una notte che l’ambiente era tiepido, invasa da una delle solite vanità si era spogliata ignuda allo specchio, imponendo a Rocco di fare altrettanto … Ella gli si volse camminando a fronte alta, col passo olimpico di una dea, le trecce nere che le sferzavano gli stinchi, lo prese lentamente e lo portò allo specchio. Due candele lo illuminavano abbastanza vivamente …”.

Stesso discorso per una delle scene finali, dove Ida, ormai mantenuta di lusso di un nobile, invita due suoi spasimanti, naturalmente blasonati, un conte e un duca, al suo “talamo” e poi li costringe a servirle la cena in ginocchio, tra le risa della servitù: “E padrona e cameriera si divertivano di quei due gran signori, due dei nomi più belli d’Italia, in ginocchio davanti a loro nate dal popolo, col vecchio rancore del popolo nel cuore”. Se mai, il problema era quello di trovare il linguaggio adatto, senza scivolare, come in effetti si verificò in alcune pagine, in un decadentismo forzatamente ricercato e predannunziano, come nella descrizione della camera da letto di Ida: “Era una camera di palazzo antico, più vasta di un salone moderno, occupata la maggior parte da un letto di ebano incrostato d’avorio. La sua testiera, lavorata prodigiosamente, saliva riunendosi in una mensola da tabernacolo, con un’apoteosi di arte e di ricchezza … e un’immensa coperta marezzata, dai bagliori cilestri, si arrovesciava dal letto, coprendone il lavoro meraviglioso con una frangia a ghiande alternativamente bronzee e azzurre sino sul tappeto di una tinta bruna come le pareti”.

E qui viene da chiedersi se questo discutibile gusto per le iperboli e i superlativi era una delle tante ingenuità dell’autore, o era proprio indirizzato a “épater le bourgeois”… Anche perché, poco dopo, si trovano pagine che, come scrisse Renato Serra, fanno pensare ai “romanzieri tristi, ai russi, a Tolstoj, a Zola … pagine in cui tutto scompare davanti all’interesse intenso di penetrare la vita e di renderne conto in parole nude, squallide e brusche come la verità”. Infatti, dietro le quinte lussuosamente drappeggiate di una vita di cortigiana di prestigio, Ida, la maestrina mancata, che aveva rifiutato questa professione che “tutti potrebbero disprezzare e che guadagnerebbe forse tre lire al giorno come una ricamatrice, e forse per questo un impiegato a cento lire consentirebbe di farle la corte …”, comincia a sentire il vuoto della sua esistenza, e c’è un bellissimo passo del romanzo, dove si sente il sofferente e soffocante aggrovigliarsi di questo vuoto, una specie di sole nero che illuminava una vita sotto sotto opacamente insignificante: “Era una melanconia, una scontentezza, un rimorso forse mille volte respinto … sentiva questo rimescolamento della coscienza, la sua vita passata risalire intorno … rivedeva il suo villaggio in una vita spettrale, la gente che si muoveva, lavorava senza mai alzar la testa, senza barattare una parola, come tanti automi, che si spostassero adagio con una felicità meccanica. Lo rivedeva in una precisione di sogno, poi la città, l’istituto, la sua camera, il suo vestito nero, il lutto della sua giovinezza insanguinata dalla ecatombe di tanti desiderii, smorta dalla insonnia di tante notti …”.

Queste pagine, quasi catartiche, fanno già presagire la trasformazione di questo personaggio, tanto importante nella poetica, ma anche nella coscienza di Oriani, perché dal No del rifiuto vendicativo, che era stata l’immagine che lo scrittore aveva creato di se stesso negli anni giovanili, si passa al della maturità, l’ultimo, incompiuto, romanzo, dove il ribellismo aggressivo e autolesionistico si placa in una visione più distesa e rassegnata dell’esistenza.

Convalescente da una lunga malattia, Ida, rivede la sua vita, l’inanità dei suoi sforzi di affermazione sociale: “In quella luce chiara che le scopriva il passato alcune figure riapparivano con la precisione del sogno. Ella guardava, e non domandava, non soffriva. Soltanto le pareva che la luce si oscurasse come in un tramonto …la sua esperienza del mondo era troppo vecchia per provarne ancora amarezza … l’amore soltanto era vero, anche nella gloria, perché allungava e sollevava la vita nel proprio sacrificio: tutto il resto appariva e dileguava, piccolo e falso d’egoismo ed apparenza di vanità …”. Pagina, quasi testamento spirituale di Oriani, che proprio negli ultimi anni della sua esistenza sempre alla disperata ricerca di quell’affermazione che pensava avesse potuto rimarginare le ferite della sua vita lancinante, riuscì a trovare nell’amore platonico di una giovane e sconosciuta ammiratrice un “sì”, uno spiraglio di affetti, un incontro con quella femminilità che aveva sempre rifiutato e disprezzato dopo il trauma infantile della disaffezione materna.