Oggi è giovedì 18 marzo 2004 e le cose stanno proprio così. Sabato scorso, nel tardo pomeriggio - ero anche di buon umore - sono scesa in cantina a dar da mangiare a un signor gatto randagio che dialoga solo con me. Ho infilato la ciotola nel buco di una grata arrugginita e quando ho tolto la mano mi sono leggermente ferita. Attacco di panico, completo, totale. Disperazione.

La mano era arrossata con due piccolissimi, quasi invisibili, segni rosso sangue, invisibili senza occhiali, da-to che non vedo quasi niente, e visibili con occhiali e lenti. Di corsa sono salita dalla cantina allo studio. Mi sono lavata furiosamente la mano con acqua e sapone e poi tintura di iodio a fiumi. Nella mia mente intanto l’idea del tetano incalza, facendo piazza pulita di qualsiasi altro pensiero. Tetano. Solo questo. Tetano.

Sono uscita ugualmente per consumare il rito del sabato sera al ristorante La gardela. Sono venti, forse venticinque anni, sicuramente una vita che Manlio e io ci ritroviamo a cena con amiche e amici. La tradizione dei nostri incontri, accada quel che accada, avviene il sabato sera. Fa eccezione la cena dell’ultimo dell’anno che, anche questa, con puntiglio, determinazione e certezza assoluta, avviene a casa di Elena e Salvatore. Nel tempo ciclico delle stagioni ho conquistato due certezze: il sabato sera a La gardela e l’ultimo dell’anno a casa dei generosi e ospitali Rametta. Mauro, il proprietario del ristorante, è una persona discreta e contemporaneamente partecipe. Noi lì siamo di casa.

All’inizio eravamo un folto gruppo, composto da persone giovani, belle e vivaci. Con la complicità del buon vino, l’allegria e la conversazione salivano di tono e alcuni di noi facevano scena di sé. Recitavano un po’ il personaggio che avevano deciso di essere o di apparire. Il tempo poi, quello che più o meno velocemente ci trascina via, è arrivato anche nel nostro gruppo. È arrivato anche da noi che, con i riti ripetitivi e un po’ scaramantici del sabato sera e della festa di capodanno, inconsciamente volevamo fermarlo. È arrivato e precocemente ci ha privato per sempre di cari amici e ha reso i pochi rimasti un po’ più depressi, più nervosi, più permalosi: più vecchi e più fragili, insomma.

Circola, infatti, una cert’aria che a volte ostacola la conversazione e il gioco delle carte. Nonostante il tempo nel suo percorso crei sempre nuovi malanni, noi superstiti tentiamo la difesa di quella che ora posso definire “la nostra febbre del sabato sera” che nulla ha a che vedere con la febbre travolgente e sensuale di Tony Manero. Nella vita, forse, è meglio non avere certezze, perché soprattutto le cene al ristorante stanno pericolosamente cedendo a manifesti desideri di solitudine con conseguente insofferenza per l’altrui presenza, anche se è presenza di amici. Così, per reciproche eliminazioni, soprattutto in estate, Manlio e io ci ritroviamo gradevolmente da soli a cena in riva al mare, al Bagno Mercurio.

Va bene. Ritorno al mio terrore di essermi presa il tetano. Il tetano. Allora quel sabato sera sono andata al ristorante alla ricerca di conforto, invece gli amici medici mi hanno detto seriamente - non scherzavano - che il tetano si contrae anche con piccolissime ferite invisibili ad occhio nudo. Mi sono sentita perduta. Mi è passata la fame; ho iniziato a sentire l’effetto, l’azione del tetano e sono rimasta così, disperata per tre giorni, in attesa dei noti sintomi paralizzanti del tetano che, per fortuna, non sono arrivati e, come al solito, mi sono detta: “Quest’altra settimana vado a farmi l’antitetanica” e, come al solito non ci sono andata. La sola idea di una iniezione nel braccio che magari giustamente reagisce mi fa presagire sciagure più ampie della possibilità di contrarre il tetano. Ma qual è l’origine di tanti mali?

Praticamente ho vissuto i miei primi sessant’anni di vita sana come un pesce, ignorando medici, medicine e malattie: qualche cibo macrobiotico, qualche fuga nell’omeopatia e nelle erbe medicinali. Una salute di ferro, apparentemente. Poi ho smesso di fumare e l’altra me - quella che avrebbe continuato a fumare - la mia antagonista, ha scatenato quei demoni della mente che ancora oggi, e più di ieri, infieriscono con tutta la loro potenza sul mio equilibrio rendendolo fragile, instabile conduttore o portatore di malattie immaginate, ma che io così realmente vivo. Tutte. Quelle vere, quelle finte, quelle forse sì, forse no. Forse. Non riesco più a fumare. Molto probabilmente appartengo a quella categoria di persone per le quali smettere è peggio che continuare. Ma la mia gola sta male quanto me; la voce, quando c’è, si è fatta roca, bassa. Forse quel male incurabile che quotidianamente sto cercando ha trovato la sua dimora proprio nella gola, nelle corde vocali.

Una tac. Dovrei fare una tac dalla testa ai piedi. Ma in realtà la mia paura riguarda l’incontro-scontro con i medici, con gli specialisti, con gli esami, con i controlli. C’è poi il terrore degli interventi chirurgici. Mia sorella Antonietta interviene drasticamente anche prima che il male prenda forma. Lei, in ospedale, ci sta bene. Come in un ottimo albergo. Per lei tutto ciò che può degenerare va asportato chirurgicamente. In-vece io tengo tutto. Non mollo. Maldestramente mi tengo sotto controllo, soccombente di fronte all’accumulo di mali con l’esatta sensazione di non beccare mai il centro vero, quel male incurabile che con tanto accanimento vado cercando. Credo di aver praticato metodi di cura i più svariati. Li ho praticati alla mia maniera. Un poco, all’incirca, pressappoco, quasi quasi, mai andando in profondità.

Con l’omeopatia ci vuole pazienza e così pure con l’agopuntura, le erbe medicinali, i minerali, ci vuole pazienza. Quando il male incalza, abbandono questi metodi dolci e alternativi e mi precipito nel territorio della medicina cosiddetta ufficiale e prendo antibiotici, antinfiammatori, vado da specialisti. Appena la diagnosi rivela un nuovo male, mi dispero. Panico, paura. Anche qui però seguo per poco tempo le cure, poi inizio a convivere. A convivere con i nuovi mali, e non decido l’intervento drastico. Invece di togliere, accumulo.

Mi muovo inadeguata a governare la fonte del male. La fonte del dolore e dell’angoscia. Perché di questo si tratta. Sono come questa città: accanto ad antichi splendori sorgono un po’ ovunque nuovi bubboni. Allora Ravenna e io ripuliamo, restauriamo gli antichi splendori e contemporaneamente coltiviamo e moltiplichiamo dal centro alla periferia nuove escrescenze.