Docente di Filosofia morale e Filosofia della religione presso l’Università degli Studi di Milano, i principali interessi di studio e ricerca di Maria Cristina Bartolomei sono la filosofia, la teologia e il tema del simbolo e della simbolizzazione, che approfondisce anche con la collaborazione alle riviste Filosofia e Teologia e Servitium.

Mi sento un essere umano libero, una donna non costretta in cliché sorpassati, ma che ne porta insieme qualche cicatrice e qualche ricchezza che ad essi si accompagnavano. I miei interessi apparentemente disparati (dalla infermiera volontaria della Croce Rossa, alla teologa, alla frequenza di corsi per psicoterapeuti e altro) si sono in realtà rivelati coerenti intorno al nucleo fondamentale di ricerca dell’assoluto mediata nell’interesse per l’umano, per la sua capacità, la sua speranza e la sua sofferenza, e hanno arricchito l’attività principale di ricerca e insegnamento filosofici che nel tempo hanno trovato il loro nucleo principale nel tema del simbolico e della simbolizzazione. Provo gratitudine per chi ha reso possibile questa strada: la mia generazione è stata la prima cui si sono aperte sostanzialmente tutte le vie della parità ufficiale e formale, col problema di acquisire il riconoscimento effettivo – le differenze nelle carriere, ecc. che permangono – e il diritto anche alla propria differenza femminile, non come variante minore dell’umano, ma come una delle due modalità, diverse ed equivalenti, di essere degli umani. Oggi si dice che i sessi sono molto più di due. Può esser vero. A me sembra che siano varianti di queste due note elementari e basilari. Gratitudine alla mia famiglia di origine e in primo luogo a mio padre e mia madre che, evidentemente, mi hanno trasmesso una immagine di me non di subordinata; gratitudine ai miei maestri di liceo e di università; gratitudine a mio marito che è stato ed è integralmente un compagno di cammino solidale, un aiuto “di fronte” (come si esprime il libro della Genesi 2,18) nel rispetto radicale, senza mai la benché minima ombra di paternalismo o maschilismo.

La donna oggi: tra potere, liberazione, integrazione e un diverso rapporto con l’uomo …

Perché opporle? Liberazione non è buttar via la responsabilità come fosse un vecchio corsetto costrittivo. Integrazione non è rinuncia a essere se stesse per accettare l’ordine costituito, ma è inserimento nella realtà, partecipazione attiva e critica alle ricerche e lotte di promozione e liberazione umana. È un fatto che le donne per lo più non hanno potere pubblico. Che il potere sia pericoloso e contagioso, ma che lasciare che lo gestiscano solo “gli altri” non lo rende migliore. Che non va perseguito in se stesso, ma può essere utile. E che bisogna all’occorrenza misurarsi con esso e vedere sul campo se e come si riesce a gestirlo con logiche non di dominio e di privilegio. Il potere di seduzione delle donne esiste, certo. Personalmente lo considero un potere di seconda mano, l’astuzia delle subordinate. E preferisco quindi perdere in un confronto paritario (anche scontando l’handicap iniziale dell’esser donna), che acquisire qualcosa per la via traversa (per-versa) della seduzione e della concessione di chi può. È un atteggiamento che mi ripugna. Le donne e gli uomini contemporanei sono poi così diversi tra loro? Verrebbe da dire di no, nel bene e nel male. Ma non sempre gli uomini e le donne sono davvero contemporanei tra loro. Infatti, a livello macrosociale sembra profilarsi fortemente la reazione di una parte degli uomini alla nuova posizione sociale, ma direi ancor di più “antropologica”, delle donne: di qui i femminicidi, gli stupri, le violenze e le molestie di genere.

E la donna milanese?

Ho incontrato tante donne attive, certo, intraprendenti e fattive, aperte, attente alla realtà e a rispondere ai bisogni, onorando un’antica tradizione cittadina (ho recentemente scoperto che agli inizi del Novecento a Milano si contavano 360 associazioni benefiche, laiche e religiose), ma non meno curiose, anche capaci di dubitare, di cercare, di con-versare, capaci anche di silenzio e di contemplazione del bello e del buono. Capaci insomma di sostare nel “vuoto”. Quanto a me, vivo a Milano da decenni, vi ho trovato preziose amicizie, occasioni di impegno e lavoro, ma non sono diventata “milanese”. Porto con me le mie radici veneziane, la pluralità di radici della mia famiglia (venete-emiliane-irpine), la mia felice naturalizzazione nella patria grigionese e romancia di mio marito, Ursicin Gion Gieli Derungs. Mi sono sempre sentita “italiana” ed “europea” ed è stato con sconcerto che ho percepito a un certo punto la nascita dei localismi. Forse in questo sono “milanese” tanto quanto “veneziana”: due città accomunate dall’essere intessute dall’incontro di provenienze diverse.

Uno degli aspetti più importanti delle sue ricerche è la collocazione e il significato della figura femminile nella tradizione cristiana.

Dato il privilegio che avevo vissuto di essere vista e considerata come “essere umano” e di poter studiare e progettarmi in modo libero, ci ho messo un po’ a scoprire che c’era un problema specifico della condizione femminile: che io mi riconoscevo nella umanità comune degli uomini, ma non tutti gli uomini si riconoscevano nella mia, in quella delle donne; che venivamo da una storia di subordinazione, da poco e non compiutamente superata (e solo in ristrette aree del mondo). Senza aver mai fatto parte di “comunità femminili” intenzionalmente separate (di autocoscienza, di ricerca filosofica ecc.), mi trovai a condividere in linea di massima la lettura femminista. In una vita in cui la fede cristiana era l’orientamento di fondo, si poneva ovviamente la questione di quale fosse e fosse stato il ruolo del cristianesimo nella promozione (o assoggettamento) delle donne che per me si accompagnava alla rivendicazione “pratica” della loro “capacità teologica”. La liberalizzazione dell’accesso delle donne agli studi teologici avvenne nella chiesa cattolica in seguito al Concilio Vaticano II (dal 1965) e poco prima nelle chiese protestanti.

Femminicidio e violenza sulle donne: in quale clima culturale e sociale trovano linfa?

Oltre al problema di destabilizzazione di assetti psichici profondi (anche se distorti!), legati a un “ordine” in cui il soggetto attivo è l’uomo e le donne sono il soggetto subordinato e del tutto “relativo” al primo, vi sono a mio avviso almeno due altre componenti. In primo luogo, il clima imperante di mercificazione. Tutto è merce, tutto è valutato con criteri di mercato. Quindi tutto è cosa, tutto è oggetto di possesso. Questo avvelena anche i rapporti affettivi, in cui l’altro diventa una “cosa mia”. Le “cose” non hanno diritto di vita autonoma, tanto meno di sottrarsi o ribellarsi a chi le possiede. L’altro aspetto, non scisso da questo, è l’estrema violenza che struttura in modo “invisibile” i rapporti sociali. Come sempre, ma anche più di sempre e peggio di sempre, perché accade sotto il velo della democrazia e dei diritti. La precarizzazione totale della vita di intere generazioni può far nascere in alcuni il desiderio di rivalsa su altri più deboli (almeno muscolarmente). Così come l’essere inseriti in clima di competizione senza quartiere stimola anche nei “vincenti” un habitus mentale da predatore, disincentivando la capacità di identificarsi con i vissuti degli altri. Beninteso, non vanno sottovalutati poi i vissuti profondi individuali, le violenze subite, ecc. che caratterizzano i casi singoli.

Come vede omosessualità, famiglie e adozioni omogenitoriali, in un’ottica cristiana?

L’unica “ottica cristiana” nei confronti anche di queste situazioni è l’evitare il giudizio, ancor più il pre-giudizio e la supponenza di esser migliori. E sapere che ciò che discrimina è la capacità di amare, di accogliere, rispettare l’altro, mettersi a servizio del suo bene. Diffido peraltro di ogni presa di posizione “in quanto…”, giacché mi appare in fondo ideologica. Si valuta secondo tutti i criteri di cui si dispone, non pregiudizialmente. Secondo quanto mi è dato capire, prendo atto che l’orientamento sessuale “si dà”. Non è mai (o quasi mai) una reale “scelta”. Non vi è alcun merito ad avere un orientamento eterosessuale e alcun demerito ad avere un orientamento omosessuale. Quanto amore e quanto egoismo si immette nelle relazioni è il criterio che le rende buone o cattive. Ciò detto, debbo dire con rispetto, ma anche con franchezza che, mentre trovo indice di civiltà restituire dignità ai rapporti affettivi delle persone a orientamento omosessuale, attraverso le varie forme di unione civile, mi lascia perplessa il voler interpretare queste come “matrimonio”, mutuando di quest’ultimo le forme anche esterne. L’unione di un uomo e di una donna aperti ad accogliere i figli che possano nascere da loro è un caso diverso delle relazioni umane, la cui specificità mi sembra da riconoscere. E, nonostante vi siano molti studi che attestano come i bambini figli di coppie omosessuali non risentano negativamente di tale situazione, continuo a pensare che sia molto difficile accertare fino in fondo le conseguenze di non disporre di due figure diverse, una paterna e una materna, con cui identificarsi (in modo differenziato). Penso a quel che scrive la psicoanalista Janine Chasseguet-Smirgel parlando dei Due alberi del giardino e di come gli umani siano figli “dell’Uomo e della Donna”. La situazione di chi sia orfano di padre o di madre innanzitutto non è affatto senza conseguenze e, comunque, è diversa. Giacché il padre o la madre sono stati presenti nella mente dell’altro, sono presenti almeno come “perduti”, come “assenti”. Se fossero consentite le adozioni da parte dei single, non ci sarebbe motivo per escludere i single omosessuali. I single possono anche avere un partner o convivente etero o omosessuale, che potrebbe essere uno “zio” o una “zia” (cui sarebbe in linea di principio ragionevole affidare il minore in caso di premorienza dell’adottante). Ma il figlio avrebbe sempre un padre o una madre, non due padri o due madri, ad esclusione del genitore dell’altro sesso. Il che mi sembra potenzialmente confusivo. Ovviamente mi rendo benissimo conto che un bambino/a risente in primo luogo del fatto di essere amato/a e che una coppia eterosessuale non è garanzia di nulla!