Nessuno mai, di quanti ebbero accesso allo studio di Zeri [1], potette avere una conversazione senza interruzioni interne o esterne. Ne scrisse pure Marco Bona Castellotti nell’incipit delle sue Conversazioni con Federico Zeri [2]:

Il colloquio veniva interrotto da vari accidenti: arrivi imprevisti, invasioni di bestiame «nemico» nel parco circostante la villa, telefonate a raffica. Queste ultime rappresentano per Zeri una realtà inquietante, anche se credo che in fondo non gli dispiacciano. Le temevo anch’io, più di ogni altra distrazione, poiché Zeri quando parla al telefono si trasforma. Tuttavia è impressionante come sappia riprendere il filo del discorso. Vi si immerge con una sorta di fervore, in cerca di un po’ di pace. La sua capacità di non spezzare il pensiero è sorprendente, quanto la facoltà di muoverlo e di divagare; così che un ’idea, una notizia, un giudizio ne generano altri. A volte si abbandona a confessioni che ci fanno scoprire strati profondi della sua personalità, emersi forse involontariamente, per un desiderio inconscio di comunicare.

Certo vi era tutto questo in quegli incontri ma si aveva il privilegio di assistere a uno sfolgorio di collegamenti, sul percorso storico degli imperi di Oriente e Occidente, sulla fine di Roma, sull’uso dei metalli e della pietra; soprattutto sulla sua incredibile conoscenza della storia, basata sullo studio di fonti rare come gli scritti di Procopio di Cesarea.

E vi era tanto da apprendere soprattutto sul tema dei messaggi e della simbologia tramandati dai monumenti di Roma antica, la chiusura della quale con il mondo medievale, secondo Zeri, “avvenne dall’VIII al X secolo” [3]; da quelli della Roma medievale, distrutta spietatamente, senza “accorgersi che tra i ruderi v’erano anche dei resti romani” [4]; e da quelli della Roma post rinascimentale - quelli rimasti ! - perché quando parlava degli errori commessi dai governanti dell’Italia unita tra il 1870 e il 1912, alzava la voce quasi sino all’urlo: la distruzione di Villa Ludovisi, una delle più belle del mondo, lo smantellamento delle ville dell’Esquilino, di Villa Altieri, di Villa Montalto Negroni, di Villa Giustiniani lo indignavano. E l’indignazione diventava parossismo quando parlava delle devastazioni delle amministrazioni del primo e del secondo ventennio del secolo scorso:

… Ma ancora peggio fu il voler inserire all’interno della città antica quella moderna, sventrando un tessuto entro il quale ogni pietra aveva il suo significato preciso, la sua storia, e culminando con errori colossali tipo l’apertura del corso Vittorio Emanuele II e di piazza Venezia.
Ancor più grave è ciò che hanno fatto le amministrazioni comunali del dopoguerra, quando è stata consentita una lottizzazione selvaggia del terreno circostante Roma, soffocandola senza per altro provvedere alle infrastrutture, e distruggendo quella meraviglia che era la campagna.
Roma odierna è il prodotto di persone prive di peso intellettuale, che hanno avuto in mano la città per decenni
[5].

Si accalorava quando iniziava a parlare della Roma antica sulla quale aveva fatto alcune scoperte “leggendo i testi bizantini del IX e X secolo, proprio perché molti edifici bizantini erano costruiti su imitazione di quelli romani” [6]. In Roma ogni epoca e ogni opera ha lasciato messaggi. I monumenti per eccellenza, simboli della città, rimangono ancora oggi il Colosseo [7] e la basilica di San Pietro. Della seconda, i messaggi possono essere quelli di storia comune, turistica [8] , mentre per i ricercatori, messaggi e simboli diventano quelli criptici, enigmatici o volutamente segreti. Sono questi i più curiosi e che mi interessano. E qui torno alla Mulas [9]. Torno alla prefazione zeriana che scrive (o insegna?) sia sulla tecnica fotografica da lei usata:

… Per ciò che concerne il mezzo fotografico, questo rapporto tra opera plastica e movimento conferma una situazione di fatto che risulta sempre più palese ed evidente: e che cioè la nostra conoscenza delle opere d’arte a tre dimensioni (e anche delle più insigni) è tuttora condizionata (e direi livellata e normalizzata sotto un invariabile comun denominatore ottico) dai criteri fotografici della seconda metà dell’Ottocento. […] È doveroso riconoscere che a questa impresa (sostenuta da un impegno ammirevole non fosse che per l’infaticabile tenacia con cui venne condotta) dobbiamo gli strumenti per ogni ricerca, per l’avvio cioè verso la intelaiatura razionale della classificazione filologica che è il fondamento della ricerca storico-artistica odierna. Ma è altrettanto innegabile che l’obiettivo fotografico positivista si rivolgeva alle opere d’arte come a cadaveri distesi sul marmo della morgue, come ad entità ridotte quasi all’astrazione del numero, dell’oggetto anodino, privo di un significato proprio e univoco. [...] Il punto di vista abituale, salvo rare eccezioni, di regola era quello rigorosamente frontale; per restare nel campo della plastica, la luce veniva artatamente smorzata in una diffusa uniformità:[…] In altre parole, il più antico capitolo della fotografia degli oggetti d’arte riproduce una sola faccia della realtà, quella puramente documentaria, mancandovi ogni accenno al complesso sistema di comunicazione visiva [10]

che sul suo metodo di studio, fatto solo di immagini. In queste però non vi è

… alcun cedimento ai luoghi comuni della retorica fotografica; e neppure vi si riscontra l’abusiva forzatura prospettica di certe immagini con le quali, in questo ultimo quarto di secolo, si è preteso e si pretende spesso di entrare nell’intimo delle personalità architettoniche e scultoree, ma che tutto sommato si limitano a deformare le più svariate espressioni, delle più diverse epoche, adattandole ad un letto di Procuste univoco, la cui derivazione tarda e frusta dall’avanguardia tedesca e russa degli anni venti è innegabile. Va da sé che l’onestà ottica e di mestiere che ha guidato la ripresa delle immagini [della Mulas] giustifica l’impiego, ripetuto e insistito, dei particolari, impiego sorretto da una sottile capacità di cogliere l’essenziale, che lo riscatta da un altro degli abusi della fotografia contemporanea, quello cioè di ridurre le opere d’arte al frammento, isolandone gli aspetti più anodini (un procedimento pretestuoso che, invece di mettere a fuoco, nei modi leciti, gli aspetti più validi dell’opera d’arte figurativa, gioca sulla distanza, sulla scoperta del dettaglio …).

È un libro lontano quasi mezzo secolo questo di cui scrivo, composto da XXII pagine e da 94 fotografie ma che impegna l’attenzione e la comprensione per una vita: ogni volta che vi torno, riscopro un passaggio, un simbolo, un messaggio al quale mai prima avevo pensato. Si tratta infatti del

… resoconto di una visita al Tempio effettuata da un occhio immune da pregiudizi estetizzanti e da schematizzazioni storico-artistiche. Sorretto da una attenta curiosità, vivace e sempre desta, quest’occhio per fissare le proprie impressioni si serve dell’obbiettivo fotografico con estrema disinvoltura, con abilità eccezionale.

Il percorso non è quello previsto dalle guide e dai maestri della storia dell’arte; l’attenzione non conosce ordine, compiutezza e gerarchie prefissate. Si potrebbe obiettare, scrive ancora Zeri, che seguendo l’estro del momento anziché le ragioni della cultura e dei suoi valori accertati e indiscussi, c’è il grosso rischio di incorrere in equivoci, di cedere al sensazionale, di prendere per buoni taluni aspetti più suggestivi. C’è da ribattere che per essere autentica, cioè viva, l’esperienza culturale deve essere vissuta in modo autonomo e personale, secondo ragioni e motivazioni intrinseche che si giustificano in se stesse.

A patto, naturalmente, che questa soggettività non si limiti ad affermare il proprio buon diritto, ma porti a risultati che siano universalmente validi: condizione che sembra lecito affermare sia stata soddisfatta, da un lato nel senso che le figure e i luoghi celebrati della basilica sono riproposti a una lettura rinnovata, dall’altro perché angoli minori, inquadrature non previste, ombre luci materiali resi nella normalità non cerimoniale del loro coesistere, rivelano «segreti» impressionanti che pure erano da sempre sotto gli occhi di tutti. Se svelare la verità sul «re che è nudo» è il compito in apparenza ingenuo, ma in realtà infinitamente difficile della fotografia, Antonia Mulas ha reso alla fotografia un servizio prezioso [11].

Leggi anche la Prima parte

Note
[1] Il 18 luglio era il giorno onomastico e il 12 agosto il compleanno del Maestro; mi pace così ricordarlo.
[2] Marco Bona Castellotti, Conversazioni con Federico Zeri, Testi e documenti della Fenice, Ugo Guanda ed., Parma 1988, p. 5.
[3] Federico Zeri, Caro Professore, Di Renzo ed., Roma 1998, p. 17.
[4] Ivi.
[5] Bona Castellotti, Conversazioni..., p. 59.
[6] Zeri, Caro …, cit. , p. 19.
[7] “Durante il periodo napoleonico furono demolite tutte le cappellette cristiane dell’arena per una questione di laicismo, mentre anch’esse facevano parte del monumento”, Ivi, p. 17.
[8] Dei tanti ne cito uno recente che ho centellinato con curiosità: Alberto Angela, San Pietro, segreti e meraviglie in un racconto lungo duemila anni, Vicenza 2015.
[9] Antonia Mulas, San Pietro, Einaudi, Torino 1979 con ‘prefazione’ di Federico Zeri.
[10] Ivi, p. XIII.
[11] Dal risvolto di copertina.