Una torrida giornata d’agosto, in questa estate così ballerina, imprevedibile, che fa passare da soffocanti calure a rigori quasi invernali. Dunque, in questa torrida giornata d’agosto siamo andati in un ridente paesino, accoccolato sulle prealpi comasche, a festeggiare il compleanno di una cara amica, poetessa di fama, che ha pensato di celebrare la ricorrenza contornata dall’abbraccio affettivo di persone a lei vicine. Con piacevole sorpresa, si è venuto a formare, in realtà, un consesso di poeti, tanto che alla fine del pranzo, ognuno degli artisti ha recitato qualche sua poesia.

L’ambiente era davvero magico, il cortile arredato da gerani rossi e da rigogliosi tralci di vite era allegramente animato da effluvi di fiori, spumanti, risotti e carni alla griglia e le strofe cantate dai loro creatori si adagiavano mollemente e sensualmente in questo dolce e pittoresco anfiteatro.

Qui ho incontrato Giampiero Neri, definito da Alberto Bertoni “protagonista assoluto della nostra poesia”, che da subito mi ha colpito per la somiglianza fisica col pittore Giulio Ruffini, e quando ha letto la sua poesia me l’ha ricordato anche nel tratto e nella personalità, connotati entrambi da una sobrietà ed essenzialità conquistate probabilmente attraverso quell’esperienza dell’esistere che ti fa sentire di aver messo il piede nella vita e di averne lasciato l’impronta: tutti e due con una sorprendente capacità di rappresentare i movimenti dell’anima con le immagini, l’uno con quelle pittoriche, l’altro con quelle verbali.

Incuriosita, ho voluto poi rivisitare il suo percorso lirico e mi sono soffermata in particolare sul libro di poesie Via provinciale che ho letto in un baleno, carpita dalle emozioni che le sue storie poetiche mi suscitavano in maniera inaspettata e intensa; lo sguardo, con mia sorpresa, scivolava rotolando sulle parole seguendole e inseguendole in un una sorta di inarrestabile pas de deux. Mi aspettavo di leggere quello che usualmente o meglio, nel mio immaginario, si intendeva per poesia (con tutto il corredo che la connota: metrica, grafica, ecc.), invece ho felicemente incontrato pezzi di storia dell’uomo Giampiero Neri, raccontate in maniera speciale, personalissima, con uno stile deciso, un ritmo armonioso che è appunto la sua poesia.

Sono storie, aneddoti, pensieri che si sentono intimamente sognati, in quanto danno senso alla verità emotiva ultima, proprio come i sogni della notte, che metabolizzano i fatti emotivi grezzi del giorno; si tratta di esperienze profondamente ancorate alla realtà, ma rappresentate mettendo in atto la funzione mitopoietica della mente. Sono, dunque, poesie che toccano e raccontano con una intonazione intensa la quintessenza del vivere.

Non so se si possa descrivere la poesia, a me, in questo caso, viene da farlo come se le poesie di Neri fossero quadri, per cui mi viene da dire che la sua poetica è connotata da chiaro-scuri che si avvicendano in passaggi impervi e inaspettati, e anche da pennellate intriganti che creano aspettative che rimarranno disattese, in sospensione o ancora da dolci colori pastello che alla fine si sporcano e inquietano o da colorazioni cupe che vanno scolorandosi in un clima pacificante, in qualsiasi caso non esiste mai un dato per scontato e l’imprevedibilità e la sorpresa sono forse la cifra ultima della sua poetica.

Queste poesie non hanno titolo, ma sono numerate e la raccolta è suddivisa in tre parti; la scelta di Neri mi ha incuriosito e mi ha indotto a fare un virtuale gioco con lui, ho provato, forse sfrontatamente, a titolarle io per come le sentivo risuonare in me. E allora ecco la n. 7 col titolo Le posate, la n. 9/VI L’indicibile, “la n. 11 Desaparecido, la n. 13 Edipo, la n. 18 Second thoughts, la n. 22 Pensare, la n.28 Trasformazione, la n.34 Morire, la n. 37 La mistica, la n.46 L’oca sa, la n. 47 La Poesia, ecc. ecc.

Questi racconti poetati sono come pennellate leggere, apparentemente soffuse di un non colore, ma se ci si lascia attraversare dalla storia, all’improvviso entra nell’anima il graffio buio della violenza. Sono come i movimenti felpati del gatto, che sembrano non avere peso e non lasciare impronte, ma in realtà affondano come un coltello emotivo nel profondo, come succede per esempio nella poesia del Fernet, dove dalla semplice descrizione dell’etichetta si scivola senza rendersene conto ai salti dalle finestre, perciò dal digestivo all’indigeribile “Le vecchie bottiglie di Fernet, anni trenta, portavano sull’etichetta l’indirizzo della ditta ... Erano gli anni della grande depressione, della crisi di Borsa, dei salti dalla finestra”. Ma anche le posate, sono un’eredità pesante, difficile da metabolizzare “il cambio delle posate mi era sembrato di malaugurio … e sono toccate proprio a me, alla fine, nella divisione di quel che è rimasto”.

In questo libro poetico della memoria la via provinciale è la protagonista, pensata come nome comune, scritta in minuscolo ma che è resa maiuscola dall’esperienza di vita che vi si dispiega, è la via che conduce alla scuola, che è teatro d’incontro e di avventura con gli amici, con le figure carismatiche degli insegnanti pur rese grottesche dagli sguardi degli alunni, e poi, per associazione, la guerra, la vita e la morte: “Si era dato un colpo di rivoltella … Anche i professori suoi colleghi non avevano commentato la notizia, poche parole, bisbigli”.

Sono storie dell’anima, al poeta bastano pochi tocchi per raccontare le sue memorie, proprio come i tratti elementari dei disegni dei bambini che nella loro essenzialità significano tutto. Fa dei suoi personaggi dei ritratti psicologici profondi, incisivi, si percepisce una forte identificazione con loro, come se rappresentassero anche suoi personagi interiori, parti molto intime e segrete di sé: il prof. Fumagalli, il preside, il maestro Confalonieri, don Paolo, ma anche il “suo” Pinocchio, persino il maiale gli appartengono: “in Brianza era il tempo di uccidere il maiale … Ma il maiale non ne voleva sapere … Il domino aveva tolto di tasca un coltellino e tagliato un pezzetto di cotenna, appena lavata con l’acqua bollente”.

Queste poche parole sono un poema sublime sul sentire acuto e implicito dell’animale in contrapposizione con la normalità banale e anestetizzata dell’uomo. Dipinge uno scavo negli animali con cui intesse un rapporto psicosomatico appassionato, ne sente la sensorialità e le emozioni incarnate, patisce e gioisce con loro, ne fa uno studio curioso e approfondito, offre loro uno sguardo serio e un pensiero partecipato, i suoi animali li vediamo e li percepiamo nei suoi quadri di poesia non solo con le loro fattezze, ma anche con la loro parte sensibile, di esseri viventi che si cimentano con gli attrezzi di cui sono dotati nel difficile impatto con la realtà: “Si resta perplessi davanti all’occhio protervo dell’aquila. A cosa serve quello sguardo impressionante, quella ferocia ostentata? … Proprio all’opposto è lo sguardo del cane, che appare unico nel mondo animale. È infatti uno sguardo umano … ” e “Non lascia indifferenti l’incontro dei grandi felini nei parchi … Rimane ben poco del loro fasto regale e di loro stessi … Sembrano un giocattolo rotto, che è stato smontato e non è possibile ricostruire”.

Che dolore, nostalgia, rammarico stringente per queste vite rotte, reificate e abusate… nel poeta, invece, c’è stima e rispetto per l’esistente, cui attribuisce un sapere di cui difettano gli umani “l’oca domestica, dai cortili, dalle aie, quando è il suo momento prende il volo. Lei sa dove va. E noi?”. C’è una condivisione emotiva naturale con i suoi personaggi, sia che siano persone o animali o situazioni, oggetti a cui si accosta con intensità, ma anche con discrezione appassionata, si verifica un essere all’unisono che fa germinare una relazione tra esperienza sensoriale e immagine mentale che origina poesia. Quindi andando a zonzo per questo filosofeggiare poetando mi imbatto in “Cosa rimane allora del tempo passato? … un maestro zen, … sentendo gli uccelli cinguettare sui rami, aveva detto: “è tutto questo e nient’altro”.

Ecco cosa ci regala la sua poesia: la scoperta e la meraviglia della quintessenza della vita. Capisco allora profondamente il perché del non titolare le sue poesie, del lasciarle insature, solo codificabili con un numero, così si possono espandere come un respiro infinito e dinamico senza essere mortificate in titoli che le costringerebbero staticamente in una strettezza di significato, in questo modo il poeta Neri dona loro la libertà di continuare a vibrare e a correre fin dove la mente va. “La poesia, come il soffio del vento va dove vuole e la si può trovare dove capita, anche in una stretta di mano, come è stato detto”.