Nell'affascinante (e altrettanto complessa) costruzione filosofica del grande Platone, all'anima – di natura divina e, dunque, come ogni divinità, immortale – viene riconosciuta una condizione del tutto particolare: nel corso della sua esistenza “prenatale” nell'Iperuranio delle Idee essa ha, infatti, il privilegio di poter contemplare e conoscere il Vero e il Bello nella loro assoluta perfezione, di acquisire quella scienza somma ed essenziale della quale poi (estrema sciagura!) è destinata a perdere ogni consapevolezza al momento di trasformarsi in essere mortale, di incarnarsi in un soma (“corpo”), più volte esplicitamente assimilato a sema (“tomba”). Una vera e propria caduta quella dell'anima che, resasi colpevole di non aver saputo dominare la sua parte passionale a tutto danno di quella intellettiva, si vede condannata a rinascere ripetutamente, trasmigrando di uomo in uomo fino alla sua completa purificazione.

Da un lato, dunque, l'oblio che, ben lontano dal poter essere interpretato come semplice dimenticanza di un sapere pregresso, diventa il presupposto stesso del nascere, il suo marchio indelebile, il suo costitutivo e imprescindibile risvolto. Dall'altro, il conseguente e inevitabile configurarsi come anamnesis (“reminiscenza”) del faticoso percorso di recupero di tutte le nozioni che, seppur già acquisite in quella lontana “vita prima della vita” e ancora presenti a livello latente, di fatto sono divenute inaccessibili; un processo di rimemorazione che finisce per coincidere perfettamente con la possibilità di apprendere di nuovo (di fatto, come se fosse la prima volta!) la sapienza indispensabile alla catarsi che l'anima è chiamata a compiere nel corso delle sue molteplici peregrinazioni terrene.

Una minaccia sempre in agguato l'oblio, una spada di Damocle perennemente sospesa sopra la testa di ciascuno fin dal suo esordio nel mondo, pronta a recidere i fili che tengono l'uomo ancorato al proprio passato e alla propria identità, a inghiottire quei preziosi ricordi che egli, al contrario, si prodiga di conservare in ogni modo. L'oblio contro la memoria, concepito da sempre come ad essa alternativo, tradizionalmente suo rivale, come se la presenza dell'uno escludesse automaticamente quella dell'altra, come se il funzionamento dell'uno di per se stesso impedisse all'altra di attivarsi.

Nemmeno la storia delle parole sembra sottrarsi alla rigidità di una simile categorizzazione. L'anatomia simbolica degli antichi, che amava assegnare le varie facoltà della psiche a determinate sedi corporee, riconosceva nel cor uno dei luoghi della coscienza e della consapevolezza di sé; se, quindi, il nostro ri-cordare (che affonda le radici nel latino re-cordor, del quale ripropone il suffisso reciproco re-) rimanda etimologicamente all'atto di “ri-stabilire un rapporto con il proprio cuore”, il suffisso sottrattivo che dà origine alla forma s-cordare descrive di contro l'affievolirsi di tale contatto. Lo stesso vale per la mens, intesa come vero e proprio archivio delle tracce sopravvissute al tempo, luogo di registrazione e accumulo di eventi e informazioni; a fronte di espressioni come rammentare, tenere o richiamare alla mente, la famiglia semantica del di-menticare esprime in negativo una situazione privativa di smarrimento e perdita (non diversamente da ciò che accade in a-mnesia e a-mnistia rispetto a mnemonico o mnemotecnica, di derivazione invece greca). E finalmente memoria e il ricchissimo lessico formatosi a partire da un'antica radice mer- presente tanto in latino (memor, memoria...) quanto in greco (mermerizein ”essere in dubbio”, merimna “preoccupazione”...) e indicante lo specifico attivarsi di quel serbatoio inerte che è la mens, l'inquietudine e l'incanto di un improvviso moto interiore che turba la tranquillità dell'animo risvegliando pensieri e sensazioni, circostanza per lo più ignota allo s-memorato o all'im-memore; lo stesso ri-membrare (che rimanda al più antico ri-memorare, affine al latino re-memoror) rinvia figurativamente alla ricomposizione delle parti di un tutto il cui disgregamento è uno s-membrare.

Eppure, accanto ai molteplici usi che consolidano la comune tendenza a riconoscere esclusivamente nella memoria il polo positivo di questa dualità, è proprio l'analisi del termine oblio ad aprire scenari nuovi e insospettabili. Esso risale al latino obliviscor che, composto dalla preposizione ob- (atta a indicare un movimento “verso” o “contro”) e dalla radice lew- (“levigare” e “fregare” da cui levis, “liscio” appunto) rimanda alla specifica procedura con la quale gli antichi per mezzo di un raschietto eliminavano i segni già impressi con lo stilus sulle tavolette di cera predisponendole così alla schedatura di nuovi dati, con cui spianavano le superfici di tali supporti annullando le precedenti annotazioni in vista della fissazione di ulteriori appunti. Perché è questo che si nasconde dietro l'immagine dell'oblivio così come ci è stata restituita, un'autentica operazione di scrittura nella quale la dimensione della dimenticanza si spoglia di ogni astrattezza per assumere i tratti del tutto fisici di una cancellazione, per farsi concreta abrasione di ciò che di volta in volta necessita di venire sostituito e aggiornato.

Non più alternativi, dunque, la memoria e l'oblio, non più rivali, bensì assolutamente interdipendenti e complementari, stretti in un intreccio vitale e dinamico all'interno del quale la capacità dell'una di recuperare e riattivare i vissuti del passato diventa davvero efficace nella misura in cui si lascia governare dall'azione selettiva e inventariante dell'altro, vero e proprio cesello preposto al ridimensionamento di quella mole sterminata di notizie che, priva di una costante revisione, rischierebbe piuttosto di saturare e inibire la capacità individuale di immagazzinamento dei ricordi, instancabile custode del corretto dispiegarsi della facoltà rimemorativa e del suo progressivo espandersi proprio perché chiamato a vigilare con attenzione sul dovere che essa ha di lasciar andare tutto ciò che non può essere conservato e trattenuto.

È tempo, allora, di tornare a Platone e alla celeberrima metafora alla quale ricorre per presentare l'anima al momento della sua nascita nella carne; egli, infatti, non solo ne parla come di un blocco di cera privo di ogni solco e pronto a riempirsi delle nuove incisioni che il progredire dell'anamnesis vi imprimerà (è la famosa tabula rasa), ma arriva addirittura a riconoscere in quella cera un preziosissimo dono delle Muse, figlie di Mnemosyne, che altri non è se non la dea stessa della Memoria. Un vincolo in continuo divenire, dunque, quello tra oblio e memoria, che il grande pensatore non scioglie dalla sua irrisolvibile ambivalenza e che nei meandri del suo filosofare si ripropone come uno dei fenomeni antropologicamente più complessi di sempre; ciononostante, siano le dimensioni della cera sufficientemente estese o troppo ridotte e la sua qualità di ottimo o scarso livello, di certo c'è che solo la consapevolezza di un'inevitabile e fruttuosa interazione tra un saggio utilizzo del ricordo e un altrettanto ponderato impiego della dimenticanza regalerà all'anima la sua ultima e definitiva liberazione.