È stato tagliato il settimo nastro di Harborea, manifestazione all'insegna della cultura del verde, mostra più che mercato di piante insolite e rare, fucina di idee decorative floreali e crogiolo di informazioni botaniche, vivaistiche, storiche e agronomiche. Harborea è stato un capriccio, un atto scellerato, una scommessa, una decisione impulsiva, ma Harborea si è rivelata un idea vincente.

Uno sparuto gruppo di signore, socie del Garden Club di Livorno, con a capo la loro presidentessa che ha rischiato la sua carica, idearono un incontro per parlare di giardini, fiori e piante, che potesse accomunare gli interessi di diverse persone, in modo da condividere per tre giorni la stessa passione, invitando qualche espositore florovivaista per avere l'opportunità di acquistare qualcosa di diverso.

Il progetto fu proposto all'Amministrazione comunale che accolse con curiosità ma direi anche con sostegno questo nuovo evento cittadino e così costruimmo la macchina organizzativa con non poca difficoltà, ansia e molta preoccupazione per la riuscita dell'evento. Il risultato fu al di sopra di ogni nostra aspettativa, un successo acclamato sia dalla città che dagli espositori che scoprirono un pubblico non solo generoso ma anche curioso e spesso preparato.

Il comitato accrebbe così fiducia nel progetto, in se stesso e verso la città tant'è che decise di proporsi uno scopo che ricadesse proprio sulla città, restaurare il piccolo teatro di villa Mimbelli abbandonato dagli anni '80 del secolo scorso ed anche in questo è riuscito, grazie all'aiuto della Fondazione Caponi e del Comune di Livorno. Un altra freccia scagliata aveva quindi fatto centro! Il comitato organizzativo è stato più che mai felice e carico di energie per questa nuova scommessa, l'edizione di Harborea 2017 e di nuovo con il cuore per la città. L'incasso di questa edizione infatti sarà devoluto agli alluvionati del 10 settembre.

Harborea ha, oltre alla parte commerciale e d'insegnamento all'arte floreale, un suo nucleo quasi autonomo che è il Caffè letterario: nei tre giorni di manifestazione è colmo di ospiti che parlano e ospiti che ascoltano, insomma un piacere per gli occhi e per lo spirito. Il suo programma è come al solito ampio e interessante, gli ospiti sono tutti di alto livello così come la qualità delle varie conversazioni.

Il venerdì è stata come sempre la rosa ad essere regina indiscussa, dal punto di vista botanico, di ispirazione d'arte nei secoli e da elemento di riflessione sull'amicizia e l'amore come dal romanzo di Saint Exupery, il piccolo principe si evince, al quale è stato dato corpo con una rappresentazione teatrale subito in apertura. La rosa come simbolo di un archetipo che Elemire Zollà descrive nella sua filosofia esoterica e che prima di lui Bernardo di Chiaravalle associa alla donna: Rosa spina, Maria rosa, la madre di Gesù è come una rosa candida e pura infatti per pregarla si usa il rosario. La rosa-donna della letterature cortese oppure quando è rossa incarna l'amore passionale ma anche la passione di Cristo. I cristiani usavano versare petali di rosa il giorno di Pentecoste come la discesa dello spirito santo e che ancora oggi come tradizione che si protrae, viene annualmente ripetuta dal foro del Panteon, dove i vigili del fuoco, attrezzati con imbracature lasciano cadere all'interno, petali di rose da ben dodici sacchi, creando una suggestione incredibile.

Così ad Harborea è stata celebrata attraverso gli aspetti botanici della rosa venuta dall'Oriente e dalla esperienza pittorica di artisti della natura morta. La giornata di sabato è stata una dedica compiaciuta alla città di Livorno, all'essere stata la porta d'Oriente, il bazar del Mediterraneo, di quel mare di mezzo che collega tra loro tutti i paesi che costituiscono le sue sponde, dove il porto di Livorno ne era l'ombelico. Città multirazziale, costruita per far funzionare le attività portuali e i traffici commerciali grazie agli esponenti che le svariate comunità in Livorno erano rappresentate.

Così spezie dall'Oriente, essenze tintorie dall'Asia, frutta dal nord Africa e molto ancora, in città si lavoravano, di rivendevano o venivano stoccate in attesa di altre destinazioni. Più tardi, con la fine del 1800 prolifereranno le industrie, specialmente nella zona nord della città a ridosso del fosso reale in modo da essere trasportate dai navicelli o dai becolini (come scriverà più tardi Caproni: “esisterà sempre, finché esisto io, questa città, malata di spazio nella mia mente, col suo sapore di gelati nell'odor di pesce del Mercato Centrale lungo i Fossi e con l'illimitato asfalto del Voltone, un'ellisse contornata di panchine bianche e in mezzo due monumenti alle cui grate di ferro sul catrame io potevo vedere, sotto il piazzale immenso schiacciando ad esse il viso fino a sentire il sapore invernale del metallo, l'acqua lucidamente nera transitata dai becolini pieni di seme di lino”).

Proprio questi prodotti che venivano lavorati in città sono stati argomento di alcuni dei nostri relatori: Alberto Tintori ci ha parlato dei cedri e degli agrumi che produce, così noi li abbiamo accostati a quella importante realtà industriale che è stata propria di Livorno, le fabbriche dei cedri canditi con i loro aneddoti. In città tutt'ora esiste la via del Cedro, una strada lunga 65 metri che molto tempo fa ospitava una delle più produttive fabbriche di cedri canditi alla livornese, da non confondere con quelli canditi alla parigina, alla marsigliese o alla portoghese che erano meno apprezzati sul mercato. La produzione dei cedri canditi livornesi ammontava alla fine del 1800 al 75% dell'intero prodotto esportato nazionale. Dai racconti di chi aveva i nonni che ci lavoravano, si conosce che gli agrumi arrivati dal sud d'Italia, venivano sbucciati per lavorarne le scorza a candito utilizzando lo zucchero che proveniva dall'Egitto, mentre il frutto veniva venduto alla ditte che producevano succhi. Spesso le arance sbucciate venivano regalate fuori dalla fabbrica ai ragazzini del quartiere.

Alessandro Butta ci ha introdotto nel mondo delle piante tintorie e dei colori che si ottengono, ricordando la fabbrica di colori nel sobborgo di Torretta vincitrice del premio ad una esposizione internazionale alla fine del XIX secolo. Ha prodotto una bellissima tintura all'indaco di una matassa di lana, partendo dal guado (Isatis tinctoria), una antica tradizione medievale descritta anche da Leonardo da Vinci. Il guado in passato veniva raccolto e le sue foglie lavorate a formare delle piccole palle che massaggiate quotidianamente poco alla volta si disidratavano ed essiccavano. Queste palle venivano chiamate “cuccagne” e i paesi che lavoravano il guado per produrre l'indaco venivano chiamati i “paesi della cuccagna”. Così come Eleonora Cozzella parlando di pepe ci ha dato modo di raccontare di una antica fabbrica, risalente addirittura al 1700 che commerciava in pepe ed altre spezie e che è ancora attiva a Livorno.

La domenica abbiamo concluso con l'importanza di ciò che mangiamo dal punto di vista vegetale, quindi concimazioni naturali fatte con gli avanzi della nostra cucina in grado di apportare tutti gli elementi nutritivi essenziali per la crescita equilibrata delle nostre piante, stagionalità dei prodotti e qualità degli stessi. Due giovani agricoltori, Dennis Barroero e Paolo Gullino, hanno raccontato l'importanza della riscoperta di fruttiferi di importanza secondaria perchè non introdotti ancora nelle nostre tavole o perchè non esteticamente appetibili come la grande distribuzione invece richiede ma che contribuiscono a darci fonti di cibo alternativo ed a creare biodiversità.

Un omaggio che ci ha regalato Claudio Porchia sull'amico che per dieci anni ha accompagnato in giro per l'Italia a presentare libri, riguarda Libereso Guglielmi scomparso lo scorso anno che ha lasciato la sua filosofia di vita imperniata sulla natura. Libereso è stato il giardiniere della famiglia Calvino, Mario e la moglie Eva Mameli entrambi scienziati agronomi e botanici di San Remo genitori di Italo Calvino. Libereso, uomo libero di nome e di fatto viveva a stretto contatto con la natura, mangiava i fiori e saliva sugli alberi, non poteva quindi non essere stato l'ispiratore del famoso romanzo Il barone rampante (“Per Cosimo Piovasco barone di Rondò tutto inizia il 15 di giugno del 1767 quando, in spregio alle regole della casa paterna, decide di trasferirsi sugli alberi e di non mettere mai più piede sulla terra”).

Il libro di Calvino, che quest'anno compie il suo 60 esimo anniversario, suggerisce tra le sue pagine che uomo e natura coesistono in uno stretto legame, quasi assoluto, un po' quello che noi di Harborea vogliamo ogni anno tentare ristabilire insieme a voi e anche quest'anno crediamo di esserci riuscite. (Testo tratto da CN Livorno)