Bergson è il primo filosofo ad affrontare la questione del tempo, in particolare con il Saggio sui dati immediati della coscienza, e non per nulla è contemporaneo di Einstein e della sua Teoria della Relatività. Egli considera il tempo un flusso continuo dove i piani di esistenza quali passato e presente si sovrappongono come in un gomitolo di lana in cui i ricordi sono i nodi del gomitolo. Per Bergson l’uomo è il risultato dei suoi ricordi in un flusso continuo che non è nient’altro che lo spazio-tempo descritto dai relativisti.

Successivamente Heidegger ha continuato il discorso sull’esistenza. Heidegger in Essere e tempo affronta un argomento importante che è quello di “esserci” e fa notare che l'uomo è l'unico ad “esserci” e al contempo a potersi porre la domanda cos'è l'"essere", e l'unico modo che ha per ottenere risposte è interrogarsi. Per Heidegger siamo “possibilità di esistenza” perché possiamo progettare di “essere” e quindi scegliamo ciò che desideriamo “essere”. La scelta è un problema che si pone a ogni uomo e quindi una questione ontica, cioè che riguarda la propria vita ma al contempo la comprensione ontologica è la comprensione dell'"essere" universale. Perciò la comprensione ontologica si radica nella comprensione ontica, e viceversa questa sale verso l'universalità, si alimentano a vicenda: perciò la comprensione del microscopico porta alla comprensione del macroscopico. Questa è più o meno la visione occidentale di cosa è l’individuo e di come si pone nella realtà. Purtroppo questi filosofi non cercano una soluzione alle sofferenze dell’uomo, per Bergson siamo il sovrapporsi di ricordi belli e brutti mentre per Heidegger siamo il sovrapporsi di scelte positive e negative.

Un altro filosofo, contemporaneo a Heidegger, si è interrogato a sua volta sul concetto di esistere, è Jiddu Krishnamurti, filosofo apolide famoso per la seguente affermazione:

Ritengo che la Verità sia una terra senza sentieri e che non si possa raggiungere attraverso nessuna via, nessuna religione, nessuna scuola [...]. Poiché la Verità è illimitata, incondizionata, irraggiungibile attraverso qualunque via, non può venire organizzata, e nessuna organizzazione può essere creata per condurre o costringere gli altri lungo un particolare sentiero.”

Krishnamurti inneggia alla piena libertà di cui si deve fruire perché è la verità, la risorsa infinita da cui attingere. Affermava che ciò che caratterizza l’uomo è l’autenticità che purtroppo si perde attraverso la sedimentazione delle “immagini”, che non sono nient’altro che i pregiudizi creati dai condizionamenti esterni ma anche e soprattutto quelli autoimposti che creano il conflitto interiore, che si rispecchia poi nella società. Questo conflitto è dettato dalla frammentazione della propria anima che finisce per confondere il nostro pensiero. Infatti per Krishnamurti l’autenticità dell’individuo non sta nella superficie, quindi nelle “immagini”, ma è insita nella libertà totale dalla coscienza e quindi del conosciuto. Perciò il pensiero si nutre del passato e delle esperienze che creano un accumulo d’immagini, una vera e propria nube che l’imita la libertà. Per Krishnamurti però la libertà non è quella che intendiamo noi, cioè quella del libero arbitrio e della volontà di scegliere, ma la libertà quale stato dell’“essere” libero in sé. Quindi per Krishnamurti la volontà condiziona il pensiero e intrappola l’individuo.

Come si fa dunque a uscire da questa gabbia? Attraverso l’osservazione, o retta attenzione, come si dice nella meditazione buddista, che è la pura azione priva del pensiero e quindi priva di giudizio, che avvicina la mente dell’individuo all’oggetto puro preso in analisi, altrimenti il controllo, il coinvolgimento e il giudizio allontanano l’individuo dall’oggetto preso in analisi.

Per Krishnamurti questo è il metodo, anche se non è esattamente corretto chiamarlo così, per affrontare le paure, anche quelle più recondite e sconosciute assopite nel subconscio. Per Krishnamurti bisogna tenere questa distanza per poter essere liberi e l’unico modo è osservare la propria interiorità per riconoscere le catene che la imprigionano, create dal già vissuto dell’esperienza accumulata nel conscio. Perciò bisogna vivere sempre e costantemente in maniera distaccata, senza giudizio, nell’hic et nunc, nel Qui e Ora, nel presente. Noi spesso confondiamo l’oggetto con la nostra proiezione dettata dal giudizio e così si crea per l’appunto l’"immagine". In definitiva bisogna stare immobili, senza creare un intervallo tra il vedere e l’agire, che solitamente è vedere, riflettere e arrivare a una conclusione, mentre bisogna non-agire per poter essere oggettivi.

In conclusione, ci troviamo davanti a un percorso di consapevolezza che è partito dall’idea che il tempo metafisico sia fondamentale per la nostra identità, per poi passare alla consapevolezza che sia l’uomo a decidere come progettare la sua vita e dare significato alle cose, e infine il tutto viene stravolto affermando che se si vuole vivere liberi realmente bisogna abbandonare significati e tempo, quasi trascendere il lato più materialistico.