“Incontro Emma Bovary a un tavolino di una caffetteria dallo stile raffinato e romantico in uno spazio atemporale immaginario. Mi colpisce l’espressione di Emma: triste e molto riservata. Un abito elegante di seta azzurra a tre balze avvolge un fisico asciutto; il corpetto con inserti di pizzi, mette in risalto una carnagione chiara ed esalta due profondi occhi neri. Mi viene spontaneo confrontare il suo con il mio abbigliamento: completo giacca e pantaloni grigi di taglio maschile, camicia azzurra… Due donne, due epoche diverse!”.

Le sue dita affusolate stringono delicatamente l’impugnatura della tazza mentre incominciamo a sorseggiare il thè. Inizio con il dichiarare che il desiderio di incontrarla mi è nato leggendo la storia della sua vita in cui in parte mi sono ritrovata. Il distacco e la freddezza del suo volto sembrano attenuarsi e una luce più dolce illumina l’espressione dei suoi occhi. Sorpresa da questa mia ammissione mi sussurra rianimata: “Davvero?! ...e in che cosa principalmente?” “Beh, è successo anche a me. Un incontro casuale con il mio primo amore ha travolto la mia vita e un forte innamoramento conseguente mi ha fatto sentire una persona nuova, invasa da una carica vitale fino ad allora sconosciuta”.

Emma mi guarda sempre più interessata; anche posturalmente la sento più vicina, mi sembra per la prima volta alla ricerca e alla scoperta di una condivisione amica. “Ma il suo era un matrimonio felice?” azzarda.
“Non lo è mai stato, ero infelice e mi rifiutavo di ammetterlo a me stessa. Mi lasciavo trascinare avanti dal senso di dovere coniugale e dalla cura affettuosa e attenta verso i figli. Ho messo a fuoco solo allora la pesante fatica che mi aveva sempre accompagnato accanto a un uomo che aveva poco a che vedere con me…”.

“Anch’io”… - finalmente si lascia andare la mia interlocutrice - “ho sentito Charles molto lontano dal crogiolo romantico dei miei pensieri, desideri, interessi…. Nonostante la sua cura e le sue attenzioni io mi sentivo molto sola, vuota, straniera in quella vita grigia e monotona che lui mi offriva… E dunque ero attratta da un mondo sfavillante ma effimero, dalla passione degli amanti che falsamente mi appagava illudendomi di sentirmi una donna vera”. “Ma la sua storia è continuata?” mi chiede più rilassata e sciolta. “Sì e per parecchio tempo… Mi sono ritrovata catapultata in una dimensione quasi magica, a contatto con un uomo con cui sentivo di avere in comune molte cose: valori profondi, interessi riscoperti e apprezzati, il piacere di confrontarsi con idee che allargavano i miei orizzonti, sfide lanciate a me stessa e superate con mia incredulità… Le persone che mi vivevano accanto non tardarono ad accorgersi di questo mio cambiamento...”.

“È quello che succedeva a me!” esclama Emma ormai coinvolta in un dialogo che colora le sue gote e la fa apparire più viva.“Ogni volta che mi sono sentita cercata, amata, il mio umore e la mia gioia di vivere è andata alle stelle! Certo, mi sfugge, l’amore è sempre stato il miglior antidepressivo”. “Come, scusi? Non ho capito”. “Niente, niente… ” rispondo e continuo: “anche la mia relazione è terminata!”.

Emma ha un moto di stizza e dispiacere insieme. “Sì, anche il 'mio grande amore', tanto idealizzato dalle mie fantasie forse ancora adolescenziali e dal mio desiderio di fuga da una realtà che mi andava stretta, si è comportato come il suo Rodolphe, lasciandomi delusa e soprattutto tramortita!”. Emma fa un balzo in avanti appoggiandosi con i gomiti al bordo del tavolino e coprendosi con le mani gli occhi, un gesto significativo di partecipazione a un dolore più volte sperimentato. “Anche lei dunque… ha sofferto per amore!”.

Rimane in silenzio un po’ turbata, poi di colpo sbotta: “Ma scusi, la sua epoca non è quella che risente della corrente del femminismo? L’epoca in cui le donne hanno raggiunto una propria autonomia ed emancipazione che le rende più forti nei confronti degli uomini? Capaci di stare in piedi da sole in tutti i sensi… insomma, anche dal punto di vista sentimentale, gli uomini non dovrebbero essere più così importanti…”. “Eh, cara Emma! Non è proprio così!”.

Sento un mio sorriso fare capolino, pensando alle tante storie raccolte di contemporanee, piombate nel baratro della depressione dopo un abbandono amoroso. “Sì, è vero, le donne dei miei tempi possono realizzarsi maggiormente sia sul piano sociale che professionale, possono raggiungere anche una indipendenza economica, ma sul piano personale possono presentare ancora delle fragilità legate alla loro sensibilità femminile e a un bisogno antico di sentirsi amate. Ritengono che solo l’uomo sia in grado di valorizzarle e non capiscono che invece possono vivere di luce propria; che quello che di forte e bello è uscito nel rapporto amoroso alberga dentro di loro - da sempre - ed è solo loro! Solo loro possono farne tesoro e usarlo per rialzarsi, per continuare ad andare avanti a testa alta, solo forse un po’ più sole…”.

Emma mi ha seguito in un silenzio carico di attenzione... e afferma, quasi fossero i suoi pensieri del momento, ad essere messi in parole: “… E proprio la solitudine, le mie fragilità dovute alla mancanza di contatti personali veri e costruttivi, il vuoto operativo delle mie giornate, hanno contribuito alla ricerca spasmodica di amori effimeri che hanno causato la mia tragedia”. Riemerge da quello stato quasi trasognato e guardandomi negli occhi con una luce dolce e melanconica mi sussurra: “Le sono grata per questo dialogo”. La guardo mentre si allontana sulla scia della sua eleganza e provo per lei un moto di tenera simpatia”. (Gemma)

Questo colloquio intimo, confidenziale, sembra una pièce teatrale e ci fa davvero immaginare la scena dell’incontro apparentemente surreale tra due donne di epoche diverse, ma che in realtà risuonano tanto vicine, concrete, un avvenimento possibile. Si vedono muovere quasi come fotogrammi che vanno al rallentatore, tutto è accuratamente descritto, l’abbigliamento, l’ambiente, gli stati d’animo, con una finezza di particolari e con una sensibilità deliziosamente acuta: l’atmosfera ci carpisce in questo fluttuare di parole, frusciare di vestiti e tintinnare luccicante di porcellane. Siamo dentro la scena e tratteniamo il fiato. Entriamo nel sogno. È commovente ed esemplare la sincerità della donna in tailleur grigio che, identificandosi in Emma, può lasciarsi andare a un racconto così toccante di sé, sicura di essere compresa per quel sentire profondo che le ha accomunate e le ha rese così vicine, in questo incontro prefigurato da anni, da quando aveva letto la sua storia.

In un abbandono fiducioso, le parole scorrono come un fiume in piena che è stato per tanto trattenuto da argini che a volte si sfaldavano, poi faticosamente si ricostruivano, lasciando però il secco della solitudine e dell’amaro in bocca. In questo felice incontro, dove si vedono i colori e le forme e dove si percepisce anche il profumo del thè che riscalda, che corrobora, che irrora le loro anime prosciugate, le due donne si rispecchiano, riescono a far cantare le loro emozioni in un unisono che nutre, che ricostituisce, che dà senso alla vita.

Non più sguardi interni o esterni che colpevolizzano o compatiscono o deridono, ma occhi che si riconoscono, si incontrano e risplendono di autentica comprensione; non si sentono più sole col loro fardello, ma lì il nodo si snoda, il peso si allenta, il groppo si scioglie in un liberatorio parlarsi senza remore, senza vergogna, ma con la sicurezza di una complicità profonda. Due donne, due nomi, due storie, due epoche, una donna in carne e ossa e una donna sulla carta, ma quanto vero e reale questo incontro che trascende i limiti del reale.

Tanto è stato scritto su Emma Bovary, critici, letterati, antropologi, psicologi, psicoanalisti, tutti arrogandosi il diritto di imprigionarla in schemi precostituiti, dove tutto era già detto, non lasciando spazio alla genuità dell’ignoto, alla creatività, alla sorpresa, a un contatto vero con lei. Quante frasi stereotipate sono risuonate in incontri culturali, quante parole preconfezionate stampate sui sacri testi, difficile uscire dal deja vu, difficile lasciarsi attraversare anima e corpo dalle emozioni di Emma, difficile riconoscere “Bovary c’est moi”, come del resto Flaubert aveva avuto il coraggio di ammettere, e di pagare, riconoscendo anche una sua parte di femminilità, mostrando davvero una visione precorritrice.

Difficile per critici uomini entrare nei panni di Emma: paura, sconcerto, confusione? Meglio racchiuderla in definizioni “scientifiche” che la distanzino e la collochino nella sfera patologica dell’altro da noi, evitando l’eventualità di esserne contagiati o da poter sentire riverberare parti di Emma in sé o addirittura di riconoscersi in lei.

Ma due punti di vista fuori dal coro sono quelli degli psicoanalisti Stefano Bolognini che scriverà un saggio dal titolo che la dice lunga Madame Bovary c’est moi, … c’est toi, ... c’est nous tous! e Speziale Bagliacca che riconosce nella dualità della relazione della coppia la responsabilità dei comportamenti di Emma, reattivi a un Charles Bovary, di solito passivizzato e compatito, in realtà “un perfetto masochista morale, e al fondo, come tutti i masochisti, un sadico, che aiuta la disperazione della moglie a farsi insopportabile”.

Gemma, con una semplicità e naturalezza incantevoli, ci ha fatto conoscere Madame Bovary nella sua essenza senza perdersi in inutili, distaccati bla bla esitanti in sentenze colpevolizzanti o assolutorie, ma senza anima. Si è concessa di incontrare Emma e di bere un thè con lei, ci ha aperto la porta e ci ha permesso di entrare nell’intimo del suo sogno, un vero sogno, uno di quelli che sanno dare un senso personale e profondo alla propria verità emotiva. Rendendoci partecipi di questa confidenza tra donne, abbiamo potuto entrare in contatto con Emma in maniera autentica, libera, senza dover ricorrere ai soliti aridi, asettici schieramenti e sentirla vibrare vera in tutta la sua umanità. Anche noi ora possiamo dire con sollievo: “Piacere, Emma, di averla incontrata!”