Paradiso e boschi, Elisii, Campi Fortunati, come quelli che una volta si cercavano nell’Atlantico, perché mai dovrebbero essere solo storia di cose passate?

(Percy Bysshe Shelley, Preface to Excursion

Molto in alto e molto lontano nel cielo, al di sopra e al di là dei cerchi successi dei picchi sempre più alti, delle nevi sempre più bianche, in uno splendore che l’occhio non può sopportare, invisibile per eccesso di luce, si erge la punta estrema del Monte Analogo…

(Renè Daumal, Il Monte Analogo)

«5 marzo. Il vento era completamente cessato, ma noi continuavamo a correre lo stesso verso il sud, trascinati da una corrente irresistibile. 6 marzo. L'acqua era calda più che mai, e ancora più lattiginosa di prima. 9 marzo. La strana sostanza come di cenere continuava a pioverci attorno. La barriera di vapore era salita sull'orizzonte sud a un'altezza prodigiosa, e cominciava ad assumere una forma distinta. Io non sapevo paragonarla altro che a una immane cateratta la quale precipitasse silenziosamente in mare dall'alto di qualche favolosa montagna perduta nel cielo…

(Edgar Allan Poe, Le avventure di Gordom Pym)

Negli ultimi anni l’uomo è tornato a sognare. A sognare sulla terra, della terra. Effetto dello scioglimento dei ghiacci, che libera terre prima celate sia nell’Artico che in Antartide? Forse. Anche. Echi dall’archetipo immarcescibile del Paradiso terrestre? Corsi e ricorsi della storia? Può essere. Lo avvertiamo anche editorialmente in non poche recenti emersioni: la Storia delle terre e dei luoghi leggendari di Umberto Eco, il poderoso Dizionario dei Luoghi Letterari Immaginari di Anna Ferrari, l’Atlante dei paesi sognati di Dominique Lanni, solo per citarne alcuni. Similmente la letteratura occidentale non ha mai abbandonato il racconto di luoghi mitizzanti, e questo sia prima che al di là del concetto, spesso fuorviante, riduttivo e massificante, di “fantasy”, epigono industriale della passione del Romanticismo per i revival di riscrittura storico-geografica. Di fronte a questo “ritorno di fiamma” possiamo chiederci: esistono tratti comuni a questi “luoghi”, al di là delle differenze di stile e di tono delle loro narrazioni e dei differenti periodi storici di contesto?

La Candaya di Cervantes, l’Elefantide di Restif de la Bretonne, il Regno dietro il vento del nord di Macdonald, l’utopica Eugea di Lemercier, la terra de’ I vagabondi di William Morris, la Vril-Ya di Litton, l’Ys di Blau, fino al regno lussureggiante chiuso tra i ghiacci di Orizzonte Perduto di Frank Capra, stanno parlando sempre della medesima Terra Felice, allusa in migliaia di opere letterarie di ogni secolo.

Esiste un nucleo centrale che accomuni questi territori “mentali”, oltre al loro porsi assai lontano dalle terre conosciute, e che precisi i caratteri di un loro “stato d’essere superiore”? Prima di rispondere a queste non eludibile domanda occorre assumere un’impostazione di metodo che è anche un approccio culturale, che possiamo definire “patafisico”, cioè non contrario alla scienza ma pure libero da rigidità pregiudiziali. In questo senso vogliamo ripercorrere le principali mappe geografiche del mondo alla ricerca dell’esistenza “patafisica” di continenti nuovi o differenti da come oggi descritti, che possano aver fatto da base empirica per il successo bimillenario del racconto dell’esistenza di “Terre felici”, cioè territori abitabili simili all’idea di Paradiso Terrestre.

A una prima analisi emerge facilmente una prima grande sorpresa: all’inizio del Cinquecento la mappa del mondo era sostanzialmente completa, quale il mondo è oggi descritto. Sussisteva solo qualche incompletezza parziale nella zona dell’Oceania, con una Nuova Olanda (l’Australia) in parte assorbita o confusa con la Guinea o l’Indonesia e/o in parte descritta come arcipelago e non come continente, ma per il resto la descrizione del mondo appare con gli occhi di oggi realistica, attendibile, precisa, completa.

Seconda grande sorpresa: tutte le mappe, ma proprio tutte, così precise e attendibili per tutti i continenti, conoscevano l’Antartide, allora chiamata intelligentemente e prudentemente: Terra Australis non plene cognita; Terra australe non pienamente conosciuta, già dalla carta di Francesco Rosselli del 1508! E si tratta di un’Antartide verde, abitabile, più grande di come oggi la descriviamo. Viene chiamata anche Magellanica, cioè la terra costeggiata da Magellano (ancora: Nicholas Vischer, 1652). Alcune mappe la popolano di rinoceronti, cavalli, capre (Mappa di Caboto).

Altre ne descrivono con dettaglio la costa, articolata in promontori, insenature, e alcune regioni antartiche ricche di denominazioni (Johannes Baptista, 1596). Un’Antartide non ancora colpita dall’ultima piccola glaciazione? James Cook duecento anni dopo ne costeggia per centinaia di chilometri l’approdo, ridotto da allora a una quasi impenetrabile muraglia di ghiaccio. Un continente che non è circondato dagli altri, come nella rappresentazione attuale, globulare, ma che circonda tutti gli altri continenti (Petrus Plancius, l’Atlante di Miller del 1519, la Tabula di Athanasius Kircher, la mappa di Le Havre del 1556, e molte altre).

Una parte di tale immenso continente viene chiamata in queste antiche mappe “regio psitacorum”: la terra dei pappagalli, così chiamata dai Portoghesi, recitano le mappe (Petrus Bertius, Mercatore, Joshua Van Den Ende, Jansson, Ortelius, Joannes van Loon) una regione antartica calda quindi, e celebre per la grandezza dei propri volatili. Altre carte citano queste terre come corrispondenti a quelle esplorate dagli italiani Paolo Veneto (1368-1429) e da Ludovico da Varthema (1470-1517) come la carta di Ortelius del 1570, quella di Gerard De Jode del 1578 e quella di Visscher. Un’Antartide che corrisponde nella sua abitabilità a un Artico non del tutto ghiacciato, ma ricco e pieno di grandi isole e terre a nord della Groenlandia, come emerge da Mercatore, geografo su cui si basa ancor oggi il nostro mappamondo terrestre, da Jodocus Hondius e Jean de Clerc, dalla “Mappa del giullare”, dalla mappa cinese di Padre Matteo Ricci, dalle carte di Athanasius Kircher, il Leonardo barocco, e in molti altri analoghi documenti, fino alla mappa di Jean Baptiste Nolin (1709) che ancora indica catene montuose oltre la Groenlandia.

Perché considerare attendibili questi documenti solo quando corrispondono all’attuale racconto del mondo e non quando vi aggiungono dei territori? Non è un paradosso che alle origini della cartografia moderna e scientifica si conoscessero più terre di quante oggi ne descriviamo? Eppure la nostra conoscenza geografica non deriva dal passato, come per ogni scienza? Non sono le mappe geografiche documenti doppiamente scientifici, in quanto sia documenti storici che sperimentali, poiché derivanti da esplorazioni, misurazioni e informazioni vissute?

Nella mappa di Pieter Van der Keere del 1607 addirittura si danno le distanze precise dell’Antartide dal capo di Buona Speranza: 450 leghe marittime, cioè più di duemila chilometri! Una misurazione non lontana dall’attuale racconto! La carta edita a Lovanio nel 1597 indica persino tre grandi fiumi antartici. E abbiamo citato solo i casi più celebri ed eclatanti, a cui si possono aggiungere molti altri esempi come le produzioni del turco Piri Reis del 1513 e quella di Orontius Fineus del 1531, tutte concordi sull’esistenza e la grandezza del continente australe, che sembrava più conosciuto ed esplorato di quanto lo sia oggi!

Persino nelle ricostruzioni della cartografia tolemaica le immense terre australi, per nulla ghiacciate, compaiono immancabilmente protagoniste sconfinate come nella tavola di Sebastian Munster del 1550, tanto quanto nella ricostruzione dei frammenti della mappa di Pomponio Mela (Parigi, 1628), come pure nella mappa di Nicola Van Sype del 1581 a illustrazione della circumnavigazione di Francis Drake. Pomponio Mela è un geografo romano! Gli antichi romani conoscevano già l’Antartide? Sembra di sì stando alla sua carta che chiama un immenso continente australe “Antiterra”, separato dai nostri continenti da un oceano! Concetto ripreso dalla carta cinquecentesca De Propaganda Fide, dove si indica il “Polo del Mondo Antartico”, ben distinto dalla Terra del Fuoco. Le bellissime rappresentazioni tolemaiche della terra e del cielo del Cellarius mostrano una perdurante distinzione tra la zona temperata australe e la zona fredda australe, che vengono comunque indicate entrambe come abitate! Cellarius distingue chiaramente fra la Nuova Olanda e la Terra Australe (come pure ancora Nolin nella sua mappa del 1708) e chiama nello stesso nome gli abitanti delle terre artiche e gli abitanti di quelle antartiche.

La trasformazione della cartografia in cartografia globulare non muta alcunché in quanto l’indicazione del “circolo antartico” era presente anche nelle mappe cinquecentesche, ancora lineari, quadrangolari. L’evoluzione della cartografia verso i modelli di visualizzazione globulare, per inciso, può pensarsi derivare da un tema simbolico, mistico che si congiunse alla praticità manuale dello strumento “mappamondo girevole”.

Il tema teologico è stato già indagato in un dotto convegno di cartografia storica tenutosi a Saint Diè Des Vosges nel 2007, dove si è evidenziato il paralellismo isomorfico tra l’iconografia del Manto della Madonna (es: Madonna della Misericordia del Ghirlandaio) e la rappresentazione della mappa del mondo a “forma di cuore”. Basti pensare alle mappe di Martin Waldseemuller (1507) e di Caspar Vopel (1570). Nel confronto aggiungiamo anche noi lo stupendo affresco della mappa del mondo di metà cinquecento di Palazzo Besta in Teglio, in Valtellina, simile alla mappe di Vespucci, e anch’esso illustrante un’Antartide più grande, avvolgente e verde, e l’Antartico curvato ad ellisse, a “cuore”, di Fineo, già citato.

Il “mondo ellittico”, piaceva per tanti motivi archetipali ed estetico-spirituali. La mappa del mondo era ancora vista come semisfera della sfera celeste. A questo aggiuntiamo le ellissi di Keplero (comunque più tarde rispetto alle mappe-cuore), l’archetipo della terra/corpo nell’ellisse del fagiolo e del feto raccolto nel ventre materno, più la praticità del mappamondo ruotante su di un perno ed ecco spiegato il prevalere della visualizzazione globulare, prima di ogni tesi scientifica. Il mappamondo quale precipitato di una pre-scientifica “politica dell’immagine”.

Che la visualizzazione globulare non sia scientificamente attendibile è un dato di fatto. Il mappamondo odierno, ancora fondato sulle carte di cinque secoli fa di Gerardo Mercatore (altro paradosso) implica necessariamente delle deformazioni antirealistiche: o il Brasile e l’Indonesia oppure il Canada e la Groenlandia appaiono ingigantiti oltre la loro reale misura, come se la rappresentazione della mappa si ribellasse alla sua curvatura. Viceversa un mappamondo reso linearmente diventa una sequenza di spicchi!

Forse aveva ragione Heinz Von Foerster: abbiamo solo la mappa, e non il territorio! Se poi consideriamo le mappe ellittiche e la proiezione sinusoidale di Jean Cossin del 1570 è naturale osservare come le terre artiche e quelle antartiche sembrano convergere, tendere alla congiunzione. Pensare che mappa e territorio coincidano sarebbe come pensare che un albero che cade senza che nessuno lo veda sia la stessa cosa della prova oculare della sua caduta. Né l’esperienza della mappa né l’esperienza vissuta ci danno il senso panottico della nostra terra. Ancora oggi, nel 2017. Un paradosso ulteriore. Resta il fatto comunque che il primo globo realizzato dal portoghese Martin Nehaim (1459-1507) presenta un’Antartide con catene montuose e verdi pianure, solo che è chiamata “Brasile inferiore”, rilievi replicati negli emisferi di Joan Martines del 1567.

Possiamo concludere con un’ultima stranezza data dalla persistenza bimillenaria del racconto di una terra “felice”, simile al Paradiso Terrestre ma non connotata da elementi essenziali fantastici. Una terra patafisicamente felice, cioè presentante connotati scientificamente ammissibili. Possiamo identificare 3 caratteri di questa terra, che è sempre la stessa Terra, che si chiami Atlantide, Avalon, o Isole Fortunate, o Regno del Prete Gianni, che sia individuata in Eldorado, o nell’Isola dei Viventi o in Shambala. Il suo nome più recente reca questa duplicità tra scienza e mito: Magellanica o Terra dei Giganti.

Una Terra che in tutti i racconti, antichi o moderni, scientifici o romantici e fantastici presenta sempre un nucleo plausibile, potenzialmente possibile: 1) un clima sempre temperato tutto l’anno, 2) una vegetazione lussureggiante, con una crescita di animali e vegetali più grandi dei loro omologhi conosciuti, 3) una vita umana più lunga. Perché queste ultime due connotazioni sono patafisiche? Ce lo dimostra proprio la costa dell’attuale Antartide, dove il gioco delle fasce di Van Allen e del plasma del vento solare fa sì che i raggi cosmici laggiù colpiscano come nello spazio, abbassando l’emoglobina e danneggiando il sistema immunitario. Si può stare sulla costa dell’Antartide pochi mesi, prendendo medicine, e non è consigliato per la salute un ritorno a breve.

Ma se la ionizzazione dell’aria può far male può esistere una ionizzazione dell’aria che al contrario produca effetti positivi. Ogni fascia di Van Allen, ne è stata scoperta una terza da pochi mesi, potrebbe/dovrebbe avere un “lato positivo” che stimola la salute e la crescita vegetale e animale. Ipotesi patafisica. E non dimentichiamo che la regione centrale dell’Antartide, poco esplorata, presenta una quasi totale assenza di precipitazioni. Insomma l’ipotesi che pochi secoli fa l’Antartide fosse calda e abitata appare sempre più ammissibile. E siccome tutte le civiltà della terra presentano il medesimo racconto antico di una Terra Felice originaria, pare ammissibile anche la domanda del sottotitolo di questo racconto.