Sulla facciata esterna dell'Oratorio dei Disciplini della città di Clusone (in provincia di Bergamo) campeggia un enorme affresco; attribuito all'artista bergamasco Giacomo Borlone e risalente all'anno 1485, esso offre una spettacolare visione d'insieme dei tre grandi temi che l'iconografia tardo-medievale della morte sviluppò a partire dal XIII secolo e che alimentarono poi il vasto repertorio delle immagini riconducibili alla categoria stilistica del “macabro”. Rimasto per molto tempo in secondo piano rispetto agli altri Novissimi (ossia le “Prove estreme” che l'uomo era chiamato ad affrontare al termine della propria vita - Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso - e delle quali, peraltro, il lavoro di Borlone porta qualche traccia nella parte inferiore), nei primi anni del '200 l'evento specifico del trapasso iniziò a suscitare, infatti, un inedito interesse per gli aspetti più concreti e ripugnanti della metamorfosi da esso operata sui corpi, per la loro raccapricciante decadenza, per il loro orrendo corrompersi; tendenza sulla quale la gravissima epidemia di peste che flagellò l'intera Europa tra il 1347 e il 1352 ebbe non poca influenza.

Fu, così, dall'immediato confronto tra lo stato fisico del “prima” e del “dopo” che scaturì un'attenzione tutta nuova per il complesso immaginifico del “lugubre”, declinato in primis nelle molteplici versioni tanto letterarie quanto pittoriche dell'Incontro dei tre vivi e dei tre morti (visibile all'interno del nostro affresco nella parte superiore sinistra del timpano); desunto, pare, da una leggenda all'epoca molto diffusa, esso narrava di come tre nobili cavalieri impegnati in una battuta di caccia si fossero improvvisamente trovati di fronte la visione tragica e raggelante di altrettanti cadaveri, ciascuno ad un differente stadio di decomposizione. Complementare a questo soggetto che mostrava i risvolti prettamente umani e materiali dell'evento definitivo, il più tardo Trionfo della morte si concentrava, al contrario, sulla sua dimensione soprannaturale, ritraendone piuttosto l'inesorabile potenza distruttiva, implacabile nel soggiogare l'uomo e nel privarlo insieme della sua esistenza e della sua forma; nell'interpretazione data da Borlone, essa sorge imponente da un sarcofago quale scheletro coronato, mentre altri due scheletri ai suoi lati infieriscono con frecce e archibugio su un'umanità attonita che invano tenta di sottrarsi ai loro colpi. Ultima a comparire in ordine di tempo la celeberrima Danza macabra, una sorta di carrellata delle diverse tipologie umane intervallate dai rispettivi “doppi scarnificati” dell'altro mondo (nella Danza di Clusone, che occupa la fascia inferiore del lavoro, sfilano in sequenza una dama, un Disciplino, un contadino con bisaccia e bastone, un oste, un soldato, un mercante e uno studente con una pergamena tra le mani).

Tutte rappresentazioni queste che, contrariamente a quanto si sarebbe portati a credere, non erano sempre appartenute alla tradizione figurativa della morte, neppure a quella cristiana. Benché l'immaginario collettivo di quel periodo le attribuisse sempre più regolarmente le sembianze di un'effigie scheletrica ammantata e incappucciata di nero, a cavallo di un destriero o sospesa in un volo ferale (o, come si osserva in altri Trionfi, quelle di un mostro semi-umano o ancora di una megera dai lunghi capelli, terribile a vedersi, spietata nello sguardo, dotata di artigli e grandi ali), di fatto nei secoli precedenti le cose erano andate molto diversamente. Se nel primo Medioevo essa era stata concepita alla stregua di un demone femminile dai tratti pressoché comuni o di un genio alato, i Romani l'avevano invocata come Mors insieme ad altri enti genericamente divini e di origine incerta, o addirittura pensata - specie nelle zone rurali - come Orcus, gigante irsuto di probabile derivazione etrusca; quanto agli antichi Greci, invece, accanto alla descrizione di Esiodo che aveva fatto di Thanatos il figlio di Notte dal cuore di ferro e dalle viscere di bronzo, avevano trovato posto nell'immaginario collettivo una serie di raffigurazioni che alla morte avevano riconosciuto tanto le fattezze di un giovane nudo e malinconico, quanto quelle di un vecchio barbuto con le ali spiegate, persino di un bambino dormiente dal viso scarno e dalla pelle scura.

Eppure, è assai curioso osservare come la reale portata di questa lenta - ma inesorabile - trasformazione sia stata massimamente veicolata proprio dall'unico elemento che nella storia della cultura occidentale non ha mai smesso di essere associato alla nozione della morte e alle sue tante espressioni: la falce messoria.

Presso le antiche civiltà agricole dell'area euro-mediterranea che riconoscevano nel grano la principale fonte del loro sostentamento, era stato il ciclico alternarsi dei ritmi stagionali ad educare gli uomini alla naturale polarità tra l“essere” e il “non essere più”, mentre l'introduzione dell'aratro e il conseguente affinarsi delle tecniche di coltivazione li avevano progressivamente aiutati a maturare la consapevolezza del profondo valore di cui il loro stesso agire poteva caricarsi; nell'attesa che le incontrollabili potenze generatrici della terra regalassero un nuovo risveglio primaverile, avevano imparato che nella fase cruciale del raccolto, nel momento stesso in cui recidevano il cereale troncandone irreversibilmente il flusso vitale, essi lo rendevano altresì disponibile per la sua successiva lavorazione, e che nelle loro mani risiedeva la facoltà di stemperare la drammaticità della mietitura nella certezza della gioiosa acquisizione di un bene prezioso e indispensabile alla sopravvivenza.

Tutte pratiche quelle legate al lavoro dei campi (dall'aratura alla semina, dalla vendemmia alla tessitura) così profondamente interiorizzate da quei popoli da aver contribuito in maniera sostanziale al configurarsi della loro originaria esperienza religiosa all'interno di un orizzonte mitico-rituale ispirato proprio all'ideologia della “passione vegetale”. Da Osiride a Baal, da Adone a Dioniso, da Demetra a Kore, erano tante le figure divine che venivano associate alle piante economicamente utili (non solo il frumento, ma anche la vite), nelle cui personali vicende di morte e resurrezione, di tragica scomparsa e glorioso ritorno veniva trasfigurato l'identico destino dell'elemento arboreo loro consacrato, alle cui arcaiche leggende si ricorreva come a sacri principi fondatori dell'identità del gruppo, come ad arcani saperi che custodivano la verità di ogni esistenza; era, così, consuetudine ovunque diffusa che durante la falciatura o la raccolta dell'uva s'intonassero autentiche lamentazioni funebri che celebrassero la sorte dolorosa e allo stesso tempo felice dell'ultimo covone tagliato o dell'ultimo tralcio reciso, una sorta di catarsi che purificava la mano dell'uomo del suo gesto terribile e necessario.

Quanto di tutto questo rimaneva in quel tardo Medioevo in cui l'azione di colei che ancora ci si ostinava a chiamare Nera Mietitrice non sembrava, tuttavia, avere altra funzione che di separare l'anima dal corpo, qualunque anima da qualunque corpo, in risposta ad un'urgente bisogno di livellamento sociale che ponesse rimedio almeno in extremis alla dilagante ingiustizia e alle disuguaglianze? Cosa si conservava ancora della forza di un simbolismo che originatosi da una specifica ritualità campestre aveva permesso di ripensare persino la sfera del morire storico di ogni essere umano, che da quella ritualità aveva derivato la pratica del lamento affidandole l'arduo compito di rendere culturalmente accettabile anche la perdita di un congiunto, di riscattare dall'angoscia paralizzante e dalla follia chi fosse colpito dal lutto, di dare un orizzonte di senso al suo strazio? Un simbolismo che, non diversamente da quanto avveniva in aperta campagna, aiutava a prendere definitivo congedo da chi ormai non poteva più essere com'era stato e insieme a conservarne la memoria, insegnando a favorirne il ritorno come presenza protettrice dei vivi e a raccogliere in eredità il frutto della sua vita perché gettasse i semi di una nuova rinascita?

Forse sopravviveva molto poco, quel poco che è andato sempre più perdendosi nel passaggio epocale da quella che Philippe Aries definisce la “morte addomesticata” del I millennio a quella “indicibile” del XX secolo, da una cultura che sapeva ancora accogliere nella sua (seppur dolorosa!) naturalità il manifestarsi dell'inevitabile ad una che quell'inevitabile non riesce quasi più nemmeno a figurarselo tanto se ne sente sopraffatta.