Il congedo dall’inverno, la rinascita della natura nello svolgersi e rivolgersi del suo ciclo è sempre stato sentito e interpretato da tutte le culture come momento fondamentale della vita e della sua continuità nello spazio e nel tempo.

La tradizione romagnola, rurale per eccellenza, è ricca di riferimenti alla ritualità festosa di questo snodo di una civiltà contadina strettamente legata ai miti della terra. Così Michele Placucci, in Usi e pregiudizj de' contadini della Romagna del 1818, uno dei primi studi sul folclore e le tradizioni romagnole, ricordava la ricorrenza.

“Nelli primi tre giorni di Marzo, ed ultimi tre di Febbrajo tutti li ragazzi costumano sull'imbrunire della sera di fare lume a Marzo, come altri dicono; abbruciando ne' campi in vicinanza della casa varj mucchi di paglia, e cantando la seguente canzone: Lemna, lemna d' Merz,/ Una spiga faza un berch;/ Un berch, un barcarol;/ Una spiga un quartarol;/ Un berch una barcheta;/ Una spiga una maletta. (Lume a Marzo, lume a Marzo,/ Una spica con gran sfarzo;/ Faccia un barco, un barcherolo,/ Una spica un quartarolo;/ Ed un barco una barchetta,/ Una spica, una maletta).

A distanza di due secoli, i “Lóm a Mêrz”, questo rito propiziatorio, è ancora celebrato nella campagna romagnola, a pochi chilometri da Ravenna, a Ca’ Segurini di Savarna, sede del Museo Etnografico Sgurì di Romano Segurini. Qui, nel fine settimana del 3-4 marzo, sotto l’impulso del padrone di casa e con la particolare collaborazione delle associazione Percorsi, Il lavoro dei contadini e del Comitato Cittadino Sagraco, si proporranno eventi, presentazioni, personaggi e gruppi per scoprire o riscoprire radici nascoste dell’ancestrale identità rurale, un mondo affascinante e ricco di sorprese.

Tutte le multiformi manifestazioni di questi Lóm a Mêrz godono a “Ca Segurini” di un’ambientazione unica, perché è vero che si trova in quello che è definito “Museo Etnografico”, ma è un museo vivente con una raccolta di oltre duemila attrezzi e utensili tradizionali esposti in una vera casa colonica dove si rincorrono gli animali da cortile, dove crescono le piante da frutta e dove dalla cucina dell'arzdora Maria Rosa escono i profumi delle prelibatezze romagnole. E proprio ad alcuni di questi attrezzi - molti dei quali ormai desueti, e proposti in passato nella rubrica, L’oggetto misterioso, di un quotidiano regionale – è dedicata un’esposizione, curata da “Sguré” e da Silvano Paganelli, allestita nella maestosa ex-stalla della casa.
Una casa rurale ottocentesca - come ci spiega l'organizzatore e anfitrione Romano Segurini - composta da abitazione, stalla, fienile, casoni, basso-comodi, silos e i due tipici capanni in canna palustre, una casa che faceva parte dei possedimenti dei Rasponi, l'antica famiglia ravennate che da qui lanciava le sue spedizioni punitive.

“In passato qui c’erano le risaie e la coltivazione del tabacco, poi, quando la maggiore facilità dei trasporti rese concorrenziali i prodotti esteri, si passò ad intensificare la coltivazione di mais, frumento e barbabietola, quindi furono impiantati frutteti e vigneti, in particolare si produceva trebbiano e uva dora, vini senza pretese, ma oggi difficili da trovare nella loro originaria versione di pianura”. “A partire dal secondo dopoguerra – precisa Osiride Guerrini, autrice de La ròba d’una vôlta a Cà Sgurèn, la ricca guida del museo recentemente pubblicata e presentata in questa occasione - con il rapido avanzare del progresso e della tecnologia sono radicalmente cambiate tecniche, ritmi di lavoro e modi di vivere… Un punto fermo, per fornire un contributo decisivo alla conoscenza del passato e alla conservazione della memoria, è il Museo Etnografico Sgurì, che raccoglie in un originale contesto, attrezzi del lavoro agricolo, strumenti delle vecchie botteghe artigiane, oggetti di uso quotidiano della civiltà contadina, mezzi di trasporto a traino per cose e persone. Casa Segurini un tempo parte dei vasti possedimenti dei conti Rasponi, poi Guidi e Brocchi, dal 1996 proprietà della famiglia Segurini, i Sgurèn, si estende su un’area di diecimila metri quadrati. In una felice posizione, che ricalca la mutevole fisionomia ambientale dei terreni, in prossimità del Primaro e del Lamone, diventa luogo esemplare per il museo Sgurì, un’intitolazione dedicata allo zio paterno di Romano”.

Non sappiamo come facciano Romano “Sgurèn” e la moglie Maria Rosa a tenere in vita tutta questa stupenda testimonianza della cultura rurale: “Sgurèn” si schermisce dicendo che la folle idea gli è stata forse dettata dal suo spirito “tardo-romantico” e, anche se le istituzioni, purtroppo, non possono dargli un grande aiuto, è soddisfatto di poter offrire ai tanti appassionati, curiosi e scolaresche che vengono a visitare i suoi tesori, un'immagine veritiera e vivente di quella che è stata la civiltà contadina: “Ho visitato tanti musei del mio genere, interessanti, bene allestiti, perfettamente illuminati, ma generalmente asettici, dove in costruzioni o capannoni moderni veniva messo in rilievo un singolo pezzo, come se si trattasse di un quadro o una scultura d’autore; secondo me, invece, è importante il “contenitore” originale, come i miei capanni, bassocomodi e stalle, e anche la quantità degli oggetti, perché solo così si possono fare confronti e capire le varietà dello stesso attrezzo nel tempo e nello spazio. Certo, il compito di conservazione e catalogazione è immane ed io posso contare solo sulle mie forze e la collaborazione di mia moglie e di qualche amico. Pur riscontrando una certa disponibilità da parte delle istituzioni, mi augurerei un maggiore interesse nei confronti del mio museo, anche in considerazione del fatto che è l’unico del suo genere nel comune di Ravenna. D’altronde, nei miei spazi organizzo anche conferenze, presentazioni di libri, concerti, antichi balli romagnoli e trebbi dialettali”.

“Mi piace stare qui – conclude l’arzdora Maria Rosa - non manca niente, ogni stagione regala il suo frutto, però bisogna aver voglia di fare e la fatica è tanta. Romano ha sempre inviti, magari anche all’ultimo momento, e io non posso far sfigurare la cucina di un museo … anche per me si tratta di un ritorno alle origini, a quella campagna che avevo abbandonato per motivi di lavoro. Qui si ritorna a vivere il ciclo delle stagioni assieme agli animali e alle piante e anche le festività riacquistano quel significato che la città ha appannato. Sono felice di offrire pure ai miei figli e nipoti questa vita e di celebrare con loro le ricorrenze familiari che sottolineano lo scandire del tempo in comunione coi ritmi e i riti della natura”.

Un invito, dunque, a rivivere una civiltà e una cultura lontane, per riscoprirne la pregnanza e il mistero, ma anche per stimolarci a difenderne l’inestimabile patrimonio e a farne tesoro anche nel presente.