Ravenna, da capitale imperiale a città spettrale, immersa in nebbiose memorie, spettro vivente di una inarrestabile decadenza che affascinò tanti viaggiatori tra Ottocento e Novecento, stimolando versi e prose visionarie: “Quale strano silenzio! Non un suono di vita o d’allegrezza / Muove l’aria … qui sono l’acque del Lete e quell’erba / Fatale che induce l’uomo all’oblio …”. Così scriveva Oscar Wilde nel 1877.

Nessuno avrebbe pensato che, a distanza di pochi decenni, questa bella addormentata diventasse uno dei centri propulsivi del dinamismo futurista, anche se, come hanno notato Claudia Giuliani e Antonio Castronuovo nella presentazione di una mostra allestita alla Biblioteca Classense anni fa, al di là della vulgata accezione del futurismo come rottura radicale con ogni tradizione, in definitiva, fu “un movimento collocato nel solco dell’umanesimo tradizionale: il suo era solo un attacco alla forma retrograda di tradizione umanistica che guardava al passato”. I futuristi, con la loro “macchinolatria” pensavano di sfruttare la tecnologia per riaffermare la centralità dell’uomo e il suo dominio sul mondo e la natura.

Altro elemento intrinseco di una componente del futurismo fu quella dell’occultismo e dell’esoterismo, quasi come anticorpi all’eccessivo “materialismo” del mondo contemporaneo e spiragli aperti verso la trascendenza. E proprio qui l’ambiente romagnolo e ravennate diedero un contributo significativo alla poetica del movimento e lo stesso logo del cenacolo ravennate, costituito da una doppia spirale, era simbolo di una filosofia perenne.

Spiccano, in questa prospettiva, le figure dei fratelli Ginna e Corra, alias Arnaldo e Bruno Ginanni Corradini. Figli di una storica e ricca famiglia ravennate, furono ritratti dallo stesso Filippo Marinetti come “una coppia bizzarrissima di gentiluomini romagnoli che della strapotente terra di Romagna avevano il fuoco di passione inesauribile senza averne la selvaggeria irruente. Apparivano ardenti ed educatissimi, slanciati verso il futuro con baldanza eroica e non di meno raffinati ed ebbri di delicatezza”. In effetti, Ginna in particolare, ebbe una formazione e trascorsi di teosofia, antroposofia e tendenze misteriosofiche, che originavano anche dall’arte bizantina ravennate che giudicava come “L’inizio della discesa della spiritualità verso il mondo sensibile”. L’accavallarsi di tutte queste esperienze portarono Ginna a una sorta di instabilità emotiva che, però, fu creativamente fruttuosa, ispirandogli, nel 1909, il dipinto Nevrastenia, uno dei primi esempi di astrattismo in Europa. Ne L’arte dell’avvenire e la Musica cromatica, i fratelli Corra, ormai entrati nell’orbita futurista, si proposero anche di aprire nuove prospettive nel preconizzare la convergenza dei diversi linguaggi delle arti in una sintesi superiore.

Si realizzarono così i primi esperimenti di cinepittura e il primo film futurista Vita futurista, del 1916. L’eterodosso futurismo ravennate ebbe anche influenza su quello fiorentino di Italia Futurista, che divenne poi l’antagonista dell’ortodosso e marinettiano movimento milanese. In definitiva, Corra, ma soprattutto Ginna, usarono il futurismo anche come leva per uscire dall’accademismo ufficiale, a Ravenna molto forte, con personalità del calibro di Corrado Ricci e Santi Muratori, per poi librarsi in sperimentazioni ancora più audaci, affini al surrealismo e alla “scrittura automatica”, come avverrà nei racconti Le locomotive con le calze del 1919. Si chiudeva così la prima e più creativa stagione del futurismo ravennate, che, fra l’altro ebbe un’eccezionale partecipazione femminile, con Irma Valeria, Vittoria Gervasi, Maria Crisi Ginanni, che avevano colto gli aspetti “femministi” del movimento, come il voto alle donne, la parità salariale e giuridica, la critica all’istituto del matrimonio.

Nel primo dopoguerra ci fu, sempre a Ravenna, una reviviscenza del futurismo più ortodosso, in un clima in cui il nascente fascismo se ne faceva quasi garante e promotore. Ne fu ispiratore Mario Hyerace, figlio del questore della città, che si fece promotore, assieme a pochi altri, di un ormai scontato Manifesto futurista italiano. Gruppo romagnolo del 1921, dove gli accenti nazionalistici erano sempre più scoperti e si proclamava che “Noi assumeremo un atteggiamento ostile contro tutte le forme di pseudo coraggio o di coraggio a mezzo e combatteremo la vecchia e falsa morale borghese. Difenderemo con tutta la nostra energia la genialità artistica italiana… Speriamo di trovare almeno aiuto e plauso presso quei giovani della Romagna ancora non corrotti da stranierismi e da dottrine ruderomane. Ci lanciamo nella lotta pieni di fede e di entusiasmo. Giovani, a noi!”.

E di lì a poco, con lo stesso “a noi!”, tremila camicie nere, guidate da Dino Grandi e Italo Balbo avrebbero inscenato la “marcia su Ravenna”, prova generale di quella su Roma, con la devastazione e l’incendio della sede della Federazione delle cooperative. Si stava così chiudendo la stagione d’avanguardia del futurismo romagnolo, sempre più fagocitato dal regime e sempre più istituzionalizzato, gli stessi Ginna e Corra ebbero incarichi amministrativi o politici e Corra, in particolare, si diede alla letteratura di evasione giallo-rosa con romanzi come Alta società o Gli amanti crudeli.