Ci sono piante che hanno fatto la storia della magia e della stregoneria femminile. La ruta è una di queste: maneggiata dalla terribile Medea, nel mito greco, ma anche protagonista della farmacopea popolare delle donne per tutta l’epoca moderna. Anticamente era annoverata fra le erbe incantate, panacea e rimedio universale contro il morso dei serpenti e antidoto contro i veleni. Il suo nome botanico, ruta graveolens, ne sottolinea l’odore intenso, pungente, sgradevole, e la lega a un mito particolarissimo, quello delle donne di Lemno, che racconta della condanna collettiva di un’intera popolazione femminile voluta dalla dea Afrodite. La condanna... a un fetore insopportabile!

L’isola di Lemno era tristemente ricordata per un fatto efferato avvenuto quando, nell’arco di una sola notte, tutti i maschi dell’isola erano stati trucidati brutalmente dalle donne. Queste per molto tempo avevano dimenticato di onorare i culti dovuti ad Afrodite, dea permalosissima che mal sopporta di vedere i suoi altari spogli ed è capace di vendette tanto fantasiose quanto crudeli. Aveva infatti condannato le Lemniadi a emanare un odore ripugnante, a causa del quale i legittimi consorti si erano trovati costretti ad abbandonare le stanze nuziali disertando gli abbracci delle spose. Avevano però avuto la malaugurata idea di accogliere nei loro letti concubine straniere dimenticando gli antichi vincoli coniugali, e ciò aveva scatenato la follia omicida delle spose.

Questa la versione ufficiale del mito. Una tradizione minore sosteneva invece che fosse stata la maga Medea a compiere la fattura pestilenziale, quando, navigando al largo dell’isola insieme agli Argonauti, venne presa da gelosia incontrollabile nello scoprire che l’amante Giasone aveva un tempo amato Issipile, una delle principesse di quella terra: aveva allora inquinato le acque marine con un farmaco preparato con la puzzolente ruta, il quale aveva raggiunto la costa infestando di quell’insopportabile maleodore le donne che si erano bagnate presso la riva.

Il mito delle Lemniadi riconduce la dimensione simbolica della ruta alla sfera dell’erotismo, giustificando il ruolo alchemico della dea Afrodite nell’unire o separare gli opposti attraverso lo strumento potentissimo dell’attrazione/respingimento, che qui coinvolge il piano sensoriale dell’olfatto. L’attribuzione a Medea dell’uso magico di questa pianta ne riconosce la natura di erba oscura e funesta, nonostante la fama acclarata di farmaco benefico. Innanzitutto, la confidenza con una pianta dall’odore repellente è pienamente coerente con le facoltà letali della maga: la ruta era ritenuta pianta anafrodisiaca, addirittura abortiva, e questa peculiarità la collega da una parte alle tematiche espresse dal mito, dall’altra alla sfera specifica di intervento di certa magia femminile, dedita ad agire sulla sessualità e sulla fertilità.

La ruta avrebbe effettivamente avuto una lunga storia legata alla medicina magica delle donne, finendo per confluire nella tradizione erboristica delle streghe moderne. A causa del suo cattivo odore si credeva che fosse in grado di scacciare gli spiriti malvagi e questo ne faceva un talismano vegetale contro il malocchio. In ginecologia era impiegata per provocare il mestruo e per facilitare i parti; in un bizzarro gioco di proprietà contrapposte, era ritenuta afrodisiaca per le donne ma antierotica per gli uomini. Nei testi della Scuola Medica Salernitana rientrava tra i rimedi per la salute degli occhi:

Nobilis est ruta
quia lumina reddit acuta
.

Pianta nobile è la ruta
poiché fa la vista acuta.

Così recitava il Regimen Sanitatis nel XII secolo, affidandosi alla grazia del verso poetico. Ma è straordinario osservare come la ruta, nell’uso medicinale, sia rimasta per lungo tempo anche la custode di antichissimi rituali apotropaici. Con un salto di immaginario e di molti secoli rispetto alle pratiche pagane della fattucchiera Medea, ecco che nel Cinquecento questa pianta ricompare negli atti del processo di una strega bresciana, Benvegnuda Pincinella: in realtà una semplice curatrice empirica, che guariva utilizzando erbe, unguenti e cataplasmi, ma all’occorrenza attingeva a saperi più profondi per produrre incantamenti e magie d’amore, per fare e togliere fatture. L’imputata, nel corso della sua deposizione, descriveva una liturgia di guarigione che si apriva proprio con una preghiera a questa pianta. Anzi: a “Madonna Ruta”, affinché concedesse la grazia con l’intercessione di Cristo e di Giuliano, santo Ospitaliere.

Questa invocazione, a cui seguiva la recita di tre paternostri rivolti all’erba officinale, risulta fortemente impregnata di ritualità arcaica e presenta consonanze profonde con quelle forme primitive di preghiera alle erbe che sono il retaggio di una vasta eredità indoeuropea delle religioni naturalistiche, le quali chiamavano in causa le piante stesse in quanto teofanie dispensatrici di salute: queste in seguito, nella più tarda medicina magica popolare, si sono trasformate in attributi di Cristo o dei santi curatori, custodi della vis terapeutica del farmaco, mentre la preghiera, attraverso la forza magica della parola incantata, continuava a garantire l’attivazione dei principi attivi della pianta, giustificandone il beneficio di cerimonie e suppliche.