Poetare è il risuonare del dire oltre il concetto.

(Carmelo Bene)

Si è costretti a usare la P maiuscola altrimenti “parola” evapora, muore subito e muore male. Il perché è fin troppo semplice: siamo prigionieri in un deserto, cioè l’artificio video che ci salassa e svena. Il video è un deserto che desertifica. Le parole sono merci, slogan, scariche elettriche, schiaffi, peti, laccatura, leccature, escrementi che il video defeca. “Escremento” in senso tecnico, cioè come tutto quello che viene espulso, rifiutato, eliminato, dimenticato prima di esserci. Di questo si fa quotidiana recita e stuccatura. Si costruisce una prigione demente con scarti e pezzi di eliminazione. Al massimo cadaveri imbellettati ma senza ambizioni. Il video è fretta, assenza di suono, rumore di fondo senza neppure la dignità del rumore quale phonè. Per imbellettare un cadavere non ci vuole fretta ma almeno pazienza e abilità. Benedetto Israele che bandiva l’immagine in quanto idolo. E benedetto il Tempio che sorvolava e superava annichilendole pur nell’accoglierle un minimo le proprie decorazioni; ammesse in quanto corredi teofanici: palme, leoni, gigli, tori, mandorle e poco altro che svaniva di fronte alla grandezza aurea, luccicante e profumata degli spazi sacri.

In questo “non tempo” di “non buio” ma di assenza del vedere per saturazione dell’accoglienza della “forma merce” la Parola agonizza e agonizza male, cioè senza un canto. C’è soluzione? Sì, nell’impossibile. Carmelo ricordava con sapienza che il possibile è già morto e solo nell’impossibile c’è varco futuribile. E ricordava che dopo De Chirico e Stravinskij la forma era finita. E con la forma ogni idea di classico/tragico. Ora con la forma rischia di morire però anche l’ascolto, la bellezza della Phonè, prima sapienza. Occorre quindi l’impossibile. Occorre “mettere in scena” il Cantico dei cantici, o l’Apocalisse, dove si “vede la Voce”, come ci racconta Giovanni nell’unico atto assoluto che è l’Apocalisse: l’incontro con la Phonè.

Il Cantico di Salomone, il più sublime Canto di Israele sembra ancora più prodigioso dell’Apocalisse di Giovanni. La visione di Patmos è unica, inimitabile, irraggiungibile nella sua non comprensione data dalla sua natura iniziatica. Ma esiste una tradizione profetica. L’Apocalisse la possiamo comunque vedere come il culmine, pur unico e inimitabile, di millenni di profezie e quale nel contempo snodo e nuova definitiva matrice delle profezie che seguiranno, che non potranno mai non essere se non frutti della medesima mai superabile e mai eludibile Apocalisse di Patmos. Enigma e visione si arabescano in un edificio immenso, di cui non si scorgono mai i confini. Mai come l’Apocalisse. Mai labirinto, mai danza sacra più grande a livello di significati e di simbolo. Il Cantico più sublime di Salomone possiede incredibilmente un’ulteriore sconvolgente anomalìa. Anch’esso unico “non testo”, incidibile e irrappresentabile, non imitato, impossibile da imitare o da recitare. Paramento non indossabile.

Il Cantico dei cantici infine non appartiene ad alcuna tradizione. Non è assorbibile in alcuna catena di trasmissione, neppure sacra. Non a caso non fu senza conflitti e discussioni la sua accettazione nel canone ebraico della Sacra Scrittura, come in quello cattolico. Non c’è una letteratura che preceda nella storia e introduca e prepari il Cantico né una letteratura che ne sia debitrice, che ne sia scìa. Non è neppure qualificabile quale “archetipo” della poesia universale, anche se vogliamo convincerci che lo sia o lo sembri.

In primo luogo non sappiamo con chiarezza o certezza cosa sia il poetare. E pure in primo luogo siamo costretti per sincerità a dover ammettere che non può darsi archetipo senza copie, qui inesistenti. Il Cantico più sublime di Salomone è un apax, un caso unico, un’esemplarità più che solitaria. Un canto-visione senza testo, senza letteratura, quindi non abbracciabile cioè non comprensibile. Per non agitarci, per rifiutare l’inquietudine che viene da una Phonè completatamente Altra, continuiamo a ripeterci che è una forma antica di poesia, come quella sumerica. Ma non è così. La poesia antica non esce dalle funzioni consolatorie e testimoniali dei mondi degli stati d’animo umani, immutati dai Sumeri ad oggi. Quindi poco interessanti.

È il regno della ripetizione, del bisogno, della condivisione solitaria dell’idea del benessere psichico. In ogni poesia c’è comunque azione e storia, pur tra le quattro mura di un animo. Il Cantico di Salomone non ha inizio e non conduce da alcuna parte. Non ha alcun messaggio da trasmettere se non la sua stessa presenza. Inizia in modo folle, quasi violento, come se riprendesse un Discorso mai iniziato e quindi mai finito, semplicemente assente. Né finisce, ma le parole si interrompono in una sospensione. Quale linguaggio allora?

Neppure questo è dato. Vi domina un’irrisolvibile e spiazzante ambiguità, abbondano simboli ma senza contesti, immagini sole, come sprecate nell’assenza cosmica di una reale conversazione. È arte? Ma quale arte? Non c’è convenzione né condivisione, come può esservi arte? Siamo di fronte disarmati a uno s-concerto. Un’armonia sconcertante! Chi riesce ad ascoltarlo? Chi può reggere questa Phonè? Neppure la grammatica può aiutare perché spesso non sappiamo neppure nel Cantico chi parla, e a chi parla. Non c’è luogo né scena ma solo modulazione di luce. Possiamo dire che nel Cantico è presente la Persona ma non l’Io?

Compaiono soggettività ma come ab-solute, slegate da tutto e pur onnipresenti? Forse. Ma cos’è la persona? Maschera di cosa? Certo per chi lo studia ci sono ipotesi, ma non aiutano. Credo fermamente che il Cantico parli di riti che avvenivano nel Tempio di Gerusalemme e che le radici della sapienza salomonica ancora palpitano in esso. Credo che il Cantico sia un Tempio. Aveva ragione Rabbi Akiva. Non c’è testo più sacro del Cantico. Sacro anche nel senso originario di alieno, di separato, offerto, anomalo, intoccabile, non manipolabile. Ma il Tempio storico è stato distrutto. I riti persi e dimenticati. Le chiavi smarrite. Restano parole. Si sente Parola nel Cantico ove la Phonè resta Phonè, libera dalla sua accettazione e addomesticazione, sempre impossibile. Non c’è casa né riposo se non essa che sembra casa a se stessa.

Fino ad oggi nessuno per divina grazia è mai riuscito a “metterlo in scena”. Può il mondo contenere il mondo? Si può cantare il Tempio dal di fuori? Si può essere fuori e dentro nello stesso spazio, nel medesimo gesto? Per grazia divina la natura aliena e incommerciabile del Cantico ha sempre contaminato e distrutto chi ha osato “re-citarlo”. Recita oscena, impossibile, turpe. Se lo leggi come fosse una poesia, come fosse un testo, ti sporchi, ti degradi. Il Canto fugge, sparisce. Si nasconde. Non è più esso ma tracce di relitti irriconoscibili. Resti tu con la tua ridicola degradazione retorica. Cerco di non ascoltare mai letture pubbliche del Cantico. Sono orribili. Imbarazzanti nella loro sporcizia e volgarità. Non centra nulla quanto possa essere bravo l’attore di turno. Non si può mettere il guinzaglio al Cielo! Cercano di dare espressività alla Parola, cercano di colorare il vento! Sarebbe comico se non fosse vomitevole. Come si può semplificare l’Universale? Può banalizzare il Fondamentale? Vorrebbero ridurre a commediola romantica un Canto cosmico! Si tratta di profanazioni, di tentativi, impossibili, di strumentalizzare l’Abisso. Se ne esce distrutti, infangati, profanati. Il Cantico miracolosamente continua ad ex-sistere indenne, sempre lontano. Il Cantico più sublime aspetta ancora chi voglia lasciar presente Phonè. La sua intangibilità e la sua natura in-audita, non ancora ascoltata, resta intatta e terribilmente sola. Terribilis tu acies instructa.

Carmelo sapeva che Parola è prigioniera del “testo”, cioè della tessitura, del meccanismo. Oggi il “testo” è il sub-sopramondo del video che tenta di espropriare ogni volo in una catena di montaggio annichilente, contrabbandando Phonè per una rimasticata e vuota idea di mondo. Carmelo cerca di liberare Phonè dal cadavere del “copione”, perché tutto sotto il folle Kronos è falsità e finzione, e compie quest’eroica impresa con l’occhio mobile fisso alla ricerca dell’Aiòn dell’Atto. La poetica oggi possibile è quella dell’a-gonìa, cioè del rifiuto dell’agone, del conflitto, nell’implosione contemplativa, nel far spazio all’abisso, nell’autoascolto di Phonè. Quale via migliore per questa Via della divina e sfingea disinvoltura di un poema di 3000 anni, privo di forma e fuori da sempre dalla stupidità di Kronos?

Non c’è più arte se non dentro il poetare eroico che ha vissuto l’“esperimento Carmelo Bene”.