Un ponte d’argento in grado di collegare il sud America con l’Europa: una raffigurazione ardita della fantasia che però spiega bene il quantitativo enorme di metallo estratto dalle viscere del Cerro Rico, la montagna più ricca della Bolivia, di tutto il Sud America e probabilmente del mondo.

Il Cerro Rico era uno dei preziosi possedimenti della corona spagnola, che dal 1500 cominciò a scavarla per estrarne minerali pregiati in mirabolanti quantità, arricchendosi ulteriormente e arricchendo l’aristocrazia della vicina cittadina di Potosi, che dislocata a 4160 m sull’arido altipiano boliviano in quel periodo conobbe una fama di estensione mondiale.

Il primo cunicolo fu inaugurato nel 1545 e ancora oggi non si è smesso di scavare, riducendo la montagna a un enorme intreccio di gallerie che si riducono ora a produrre alterne fortune. I filoni pregiati di argento sono esauriti da tempo mentre rimangono ancora da estrarre metalli meno nobili quali stagno, piombo o rame che però risultano ugualmente preziosi per la miriade di minatori che quotidianamente si inerpicano lungo i sentieri polverosi della montagna, per poi introdursi come formiche in stretti cunicoli che li porteranno centinaia di metri nel sottosuolo, in un buio labirinto disposto su dozzine di livelli.

Ogni miniera è di competenza di una cooperativa che si è aggiudicata una concessione di scavo dallo stato, che nel 1952 ha provato a gestire direttamente lo sfruttamento minerario garantendo ai lavoratori un salario minimo, condizioni di sicurezza, casa per le famiglie, scuola per i figli, competenza tecnica. Dal 1985 però la gestione è risultata troppo gravosa e passando il tutto alle cooperative sono spariti anche i benefit dei minatori oltre che gli ingegneri che studiavano la montagna, cominciando così a scavare senza alcun criterio dettato dalla geologia. I minatori seguendo l’istinto si aprono la via nella roccia a colpi piccone o di candelotti di dinamite che al mattino, prima di recarsi al loro loculo lavorativo, acquistano presso il locale mercato insieme con le foglie di coca e bottiglie di alcool a 96 gradi, unici elementi di sostentamento per riuscire ad arrivare alla fine della giornata. Mancando del tutto una pianificazione, mediamente una volta alla settimana quella dinamite viene posta nella posizione sbagliata e chi si trova troppo vicino alla deflagrazione non sopravvive, nonostante come da rituale abbia lasciato le proprie offerte sotto forma di foglie di coca e sigarette al locale Tio: divinità con una statua dalle fattezze di demoniache che attende i mineros all’ingresso della miniera. E se si sopravvive alla mala suerte difficilmente si sopravviverà alla silicosi, che miete vittime tra i minatori già a 30 anni, ma dopo probabilmente almeno 20 passati nei tunnel respirando quante e quali polveri tossiche.

Fatica, rischi e aspettativa di vita ridottissima per garantire la sopravvivenza alla propria famiglia solitamente numerosa, recuperando anche solo l’equivalente di un paio di dollari al mese. Un destino che ha riunito la sorte di milioni di lavoratori del Cerro, reclutati a forza tra schiavi indigeni o africani, per estrarre le innumerevoli tonnellate di metallo che hanno reso ricca Potosi, popolata nei secoli passati di dozzine di lussuosi palazzi e ben 32 chiese. Non a caso veniva definito “tesoro del mondo, re delle montagne, invidia dei re”, ma rincorrendo oggi il miraggio di una manciata di stagno questo decadente paese può aggrapparsi solo ai ricordi del suo passato ormai lontanissimo.