Edizione primaverile di Giardini Estensi, Ferrara 6 maggio 2018. Un invito a presentare un intervento su un tema a me tanto caro come quello del giardino e della sua potenzialità terapeutica. Un benessere che arriva dalla bellezza, quella pura, quella vera. Impossibile resistere alla tentazione di provare a viaggiare per questo luogo ameno attraverso qualche pagina di letteratura. Come non conciliare due grandi passioni?

L’idea era quella di presentare al pubblico come alcuni giardini di libri più o meno celebri siano nella realtà. Condividere quale sia il loro potere. Immaginari o reali che fossero, quei giardini andavano svelati. Complice la mia amica giornalista, Giorgia Mazzotti. Il mio percorso partiva da alcuni volumi che mi avevano accompagnato in varie fasi della vita, da quelle più serene a quelle più complesse e complicate. In quelle pagine avevo sempre e comunque trovato ristoro o fonte di ispirazione.

Marco Martella, nel suo Tornare al giardino mi aveva guidato e aperto la strada alla riflessione. Per Martella, un giardino è un luogo dove ritrovare se stessi, uno spazio dove perdere i propri pensieri e ritornare a respirare un’aria che ogni giorno appare sempre più rarefatta e soffocante. Un luogo appunto. Un mondo a sé, importante e salvifico, soprattutto in un’epoca, come quella moderna, dove siamo ormai circondati dai “non luoghi”, quegli spazi immensi e umanamente vuoti come i rumorosi centri commerciali, le anonime zone residenziali o i brulicanti aeroporti che ci rendono tutti uguali, omogenei, omologati, fatti per essere e trasformarci unicamente in un consumatore di spazio e di cose. Uguali, tutti uguali, allineati e obbedienti. Mi chiarivo cosa ci spinge a creare giardini. La voglia di trovarci in un vero luogo, la percezione che quando entriamo in uno di essi accada qualcosa di speciale proprio in quell’istante, la sensazione che si stia entrando in un mondo con leggi diverse da quelle ordinarie. Un luogo chiuso con le sue regole che sa anche di sacro, basti pensare agli antichi Romani, secondo i quali ogni angolo della terra era abitato da una divinità minore, un genius loci, con cui bisognava dialogare e capirsi quando ci si insediava in un luogo da esso pre-abitato.

Forse quelle sono le voci e i sussurri che sentiamo quando varchiamo la soglia di un giardino, rivelazioni improvvise di passati e storie che portano lontano. Forse quella la sensazione di abitare un luogo senza tempo, di ritrovare un ordine profondo che va aldilà della nostra comprensione, di sfiorare una storia accumulata in un angolino di terra, suoni e odori che stanno lì in attesa di parlarci. Veri luoghi che rapiscono e che sottraggono al quotidiano, almeno per un po’.

Da qui partivo, per approdare al giardino dal potere taumaturgico e rigenerativo de Il giardino segreto di Banana Yoshimoto e a quello omonimo di Francis Hodgson Burnett, uno dei libri per ragazzi più belli mai letti. Il giardino giapponese, in particolare, è un luogo fisico e dell’anima, un’opera d’arte, un angolo di silenzio, di assenza, di vuoto, dove l’unico suono percepito è lo scorrere leggero dell’acqua. Per permettere all’uomo di percepire l’anima delle cose. Qui si medita, si ricerca l’illuminazione personale. La sabbia di questa incantevole riproduzione della Natura in miniatura è simbolo di eternità, la roccia rappresenta la vita terrena, l’acqua è la vita e deve scorrere da est a ovest come il Sole, le pietre nell’acqua sono gli ostacoli della vita stessa. La forma delle rocce non è casuale e possiede un significato: prostrate (Kikyaku) a simboleggiare la terra, ramificate (Shigyo) a ricordare il fuoco, alte e verticali (Taido) come le vette che rappresentano, piatte o a cuscino (Shintai) a voler richiamare l’acqua. Le carpe koi che nuotano negli stagni, rappresentano coraggio, perseveranza e longevità. Non siamo però di fronte a un luogo “plasmato” e dove l’architettura gioca un ruolo ma di un angolo dove l’uomo possa entrare in un rapporto armonico con la natura.

In questo mondo a sé, l’arte di vedere il bello va aldilà di ogni disabilità, come accade all’amico della protagonista del libro della Yoshimoto, il dolce Takahashi scomparso prematuramente per problemi di cuore e una malattia alle gambe che lo aveva costretto sulla sedia a rotelle fin da bambino. Il suo giardino d’infanzia è il centro di tutto il romanzo, la sua bellezza e la sua energia, il suo vero significato. Nonostante la disabilità, Takahashi lo aveva sempre curato con passione e amore, un luogo che pare svelare la risposta a molte domande. Forse bisogna accontentarsi della natura, forse ci ostiniamo a riprodurla perché la si ritiene un frammento della già meravigliosa opera degli dei.

Da questo luogo sicuro, passavo a un luogo d’infanzia, quello della Burnett, un mondo degno di una favola e di colori fino ad entrare in un giardino “blindato” protetto da un aldilà del muro che fa paura, mentre “fuori c’è la guerra” e dove oltre quel muro ci sono il diverso, lo sconosciuto e l’ignoto. Il luogo di “educazione all’amore”, alla comprensione reciproca e al dialogo era quello de Il giardino persiano di Chiara Mezzalama.

In entrambi i romanzi si riporta alla capacità dei bambini di operare in modo assennato e di aiutarsi vicendevolmente per uscire da un momento di crisi. L’educazione promossa da Burnett non era quella impartita in aule buie e chiuse scolastiche, ma quella garantita dalla vita all’aria aperta e dalla cooperazione: il potere rigenerativo della natura. Qui si avverte con potenza la forza curativa del “pensiero positivo”, la metafora del giardino, che da non intendersi solo come un luogo fisico ma anche, e soprattutto, come luogo dell’anima, da coltivare e far rifiorire in seguito a una situazione problematica. La protezione.

Il giardino della Mezzalama, quello di una Teheran del 1981, è quello che accompagna il difficile periodo di un paese stravolto dalla rivoluzione islamica dell’Ayatollah Khomeini, dalla crisi degli ostaggi americani, da un buio terrore, dalla povertà e dalla guerra con l’Iraq. Lo sguardo sul paese è quello dell’infanzia (Chiara ha 9 anni e il fratello Paolo 6), quello di due bambini che giocano, con candore e spensieratezza, in un giardino quasi magico e segreto, quello della residenza estiva del diplomatico, a Farmeniah, ridata a nuova vita dalla moglie Elena. Una campagna dove il rumore delle bombe e degli spari fa comunque da sottofondo a notti che sono tutt’altro che tranquille. Il candore dei ragazzini, che vanno a caccia di lucertole fra le erbacce, accompagnati dal cane Moretto, fra leggere fontane e profumati alberi di melograno, fa tenerezza, una dolcezza e spensieratezza infantili che cercano di rassicurare ma che fanno anche da contorno a un mondo impregnato di violenza, incomprensioni, proibizioni, punizioni, morte, impossibilità di vedere il di fuori, quello che sta aldilà del muro, che affascina ma che fa anche paura. In un paese di antiche storie e tradizioni (il padre alla sera legge loro antiche fiabe persiane, a comprendere la bellezza di quel Paese ospite), il gioco assorbe completamente, mentre Chiara legge sotto il fresco patio, soprattutto autori francesi.

Solo qualche diversivo, con le cautele del caso: la visita al Gran Bazar con il suo odore di carni, di spezie e di stoffe in un tripudio di ori, tesori, pietre preziose e gioielli. Con il cortese signor Mozarafià, che invita a gustare una tazza di tè davanti a meravigliosi turchesi avvolti in un giornale, che ricordano il colore degli occhi dell’ambasciatrice. Oppure la scappata al forno, con la tata Lita, immersi dall’odore dei tre tipi di pane che lì si preparavano, caldi, bollenti, deliziosi. Solo profumo di pane e di farina, la guerra lì non aveva odore. Ci sono anche Jafar, Azadeh, il portiere Bujuk, con il figlio pasdaran, Zora, Hakimé. E poi, nel giardino fatato, c’è l’incontro con Massoud, l’amichetto coetaneo dai vestiti logori, che si arrampica impavido sul muro della villa e arriva dall’esterno, con la sua dolcezza, la sua vita, la sua polvere, la sua povertà e la sua storia. Uno scambio di maglietta arancione, una complicità legata alla scoperta di una gatta con i gattini e l’amicizia supera ogni ostacolo, ogni divisione, ogni differenza, religione, diffidenza, confine, barriera, pregiudizio, malinconia. Mangiucchiando fichi, mandorle e pistacchi, in quelle che tutti chiamavano la casa celeste. L’azzurro è riposante, tranquillizzante, come il cielo abbraccia e fa sparire ogni paura. Ma come sempre accade, arriva il momento di andarsene, perché nonostante sforzi e impegno, il mondo esterno è diventato troppo pericoloso. Quel giardino all’ombra delle sirene del coprifuoco l’aveva plasmata, lei era cambiata, fino ad oggi, lo sarebbe stata per sempre. Il grande poeta Ferdowsi vegliava su di lei, dalla piazza romana a lui dedicata.

E i luoghi reali ? Eccoli svelati, ma ve li lascio scoprire piano piano. Quello della Burnett sono tanti giardini in uno: la brughiera del Misselthwaite Manor, le distese verdi dell’Allerton Castle nello Yorkshire, il Great Maytham Hall, Rolvenden, nel Kent, gli spazi dell’Highclere Castle nell’Hampshire. Fino al giardino dell’Ambasciata d’Italia a Teheran. Leggere (e volare) per credere…