«È scoppiata la pioggia nel mio giardino e non vorrei naufragare. Può richiamarmi fra tre minuti?».

Solo a fine intervista colgo in questa frase la metafora di una vita, quella di Duccio Demetrio, filosofo, che dopo tre minuti risponde di nuovo al telefono e racconta che è nato a Milano nel 1945 alla fine della guerra e che era «un bambino curioso degli aspetti della natura; un bimbo che ha desiderato presto la campagna alla quale ha potuto avvicinarsi da grande scegliendo una residenza extra urbana. Un bambino che ha iniziato presto a scrivere e a scrivere di sé; poi un liceale affascinato dall’esistenzialismo che l’ha portato all’Università Statale di Milano dove ha incontrato i maestri della filosofia contemporanea ma soprattutto - grazie all’impegno politico – è entrato in contatto con il mondo degli analfabeti e il rapporto con l’analfabetismo è diventato molto importante per la sua crescita. Insegnare loro a leggere e scrivere trasportava “quel me ragazzo” nelle loro storie, offrendo occasioni per fare analisi filosofiche mescolandole alle esperienze personali. Poi quel “giovane me” esordì nella vita adulta, con le gioie e i dolori, le conquiste e le sconfitte, il rapporto con la fine, con la morte e poi la vita che ricomincia con la fondazione della Libera Università dell’Autobiografia, insieme con Saverio Tutino. Possiamo dire che la ricerca di questo “signore di oggi” non si è limitata solo all’autobiografia: ha cercato di leggere e scrivere moltissimo e ha provato a rimanere fedele al bambino che amava la natura. Infatti vive nella campagna toscana e… prima stava quasi naufragando».

Duccio Demetrio sintetizza la sua storia parlando di sé in terza persona, come fosse la biografia di un altro. In qualche modo è una tecnica: provateci. Provate a raccontare chi siete in terza persona: l’effetto anziché estraniante è potente. Vi permette di guardarvi. D’altra parte il professor Demetrio si occupa di pedagogia sociale, educazione interculturale ed epistemiologia della conoscenza in età adulta; ha al suo attivo numerosi saggi e una carriera come professore ordinario di Filosofia dell'educazione e Teorie e pratiche della narrazione. Poi la sua avventura: la Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari (LUA) di cui Demetrio è direttore scientifico oltre che fondatore con quel Saverio Tutino, inventore e animatore dell’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano.

La Lua, nata nel 1998 come associazione culturale senza fini di lucro, ha presto preso la forma di una comunità di ricerca, formazione, diffusione della cultura della memoria in ogni ambito. È unica nel suo genere. A me però resta un dubbio: ma non parliamo già abbastanza di noi stessi, anche grazie ai social?

È vero, alla rete affidiamo molto di noi ai limiti dell’esibizionismo. La narrazione di sé è però altra questione, diversa anche dal racconto orale. La scrittura autobiografica riconduce alla vita interiore, porta a staccarsi dagli altri, mentre l’oralità - e pure le esternazioni sui social – sono foriere (anche) di grande dispersione. La scrittura ci restituisce l’incontro con noi stessi, un raccoglimento e una forma di meditazione. E quando le persone ri-leggono la propria storia scritta da se stessi provano emozioni profonde.

Serve “fegato” per raccontarsi nero su bianco.

Da noi arrivano molti over 50 e diversi giovani tra i 30 e 35 anni: in entrambi i casi con il desiderio di esplorare, anche per ragioni professionali, ma chi ha paura della memoria sta lontano dall’autobiografia. Di questi tempi invece è prezioso avere un’educazione che contrasti l’oblio. Ed è questo che facciamo alla Lua perché autobiografia non significa solo raccontare i fatti propri romanzandoli un po’. Ci occupiamo di autobiografia narrativa e sociale, cioè la scrittura che emerge in certe circostanze del percorso personale: congiunture estreme, passaggi come un lutto, un abbandono, la migrazione; o situazioni definitive come la vicinanza alla morte o la narrazione del sé che sgorga nei luoghi della sofferenza come ospedali, carceri. Raccontarsi è uno strumento per difendere la memoria personale e per lasciare ad altri la testimonianza della propria vicenda. Così come non possiamo dimenticare che scrivere in prima persona offre benessere, lenisce ferite del corpo e dell’animo. Scriviamo perché sentiamo di ritrovarci o di riscoprire chi siamo quando ci sentiamo disorientati, privi di luoghi affettivi e fisici. La scrittura può essere un antidoto al caos, perché ci offre mappe mentali e autostima.

Caos, mappe, autostima. Comincio a capire perché ci sia bisogno di un’università dell’autobiografia: in epoche di transizione come quella attuale la confusione è tanta.

Sì, anche se bisogna ricordare che il genere autobiografico in Italia nasce con Sant’Agostino con le sue Confessioni e nella letteratura latina i diari, le cronache, i memoriali, gli epistolari erano già molto diffusi, pensiamo ai Tristia di Ovidio e poi Dante, Petrarca, Machiavelli. La necessità di raccontarsi con la penna è un bisogno umano, che per secoli è stato possibile solo alle aristocrazie alfabetizzate. Uno degli intenti di Lua è avvicinare tutti, anche chi non ha dimestichezza con la scrittura, alla possibilità di narrare se stessi. Abbiamo, infatti, messo in piedi una rete di biografi volontari: raccolgono e trascrivono le storie di chi per svariate ragioni non è in grado di metterle su carta.

Per esempio? E che effetto fa ai protagonisti?

Persone gravemente malate, ospiti di servizi sociali, anziani. Attraverso l’ascolto, i biografi volontari scrivono per queste persone restituendogli il filo rosso delle loro vite. C’è molta soddisfazione da entrambe le parti ma per i “protagonisti” quel che conta di più è sapere che qualcuno protegge la loro storia e la restituisce al mondo. Gli effetti sono molto diversi però da quelli che si ricavano dalla scrittura autobiografica.

Ovvero?

Per esempio: quest’anno il Festival dell’autobiografia della Lua è dedicato al Tempo che è “la” dimensione fondamentale nell’universo dell’autobiografismo, per oltrepassare i confini di altre forme di narrazione che si muovono nella fiction, nella costruzione di romanzi scostati dai fatti. Il tempo fa affiorare la memoria, ne coglie i segni più remoti lasciandole il tempo, appunto, di maturare. Questo è più difficile nel racconto orale fatto ad altri in “tempi” necessariamente definiti. Portare in superficie i ricordi nel proprio intimo spinge a formulare domande, spesso senza trovare risposte. E le domande sono l’anima della filosofia che se diventa dogma tradisce se stessa. Scrivere di sé è un atto filosofico che nasce dalla ricostruzione della tua esperienza e dilata il punto di vista della coscienza. Altrettanto, porsi interrogativi alimenta curiosità, voglia di confrontarsi, di leggere, anche biografie di altri. E quando ricostruisci il disegno retrospettivo della tua vita, vivi il desiderio di continuare. Questo è lo scopo finale della Lua. Tanto che molti arrivano da noi per scrivere la propria storia da lasciare a figli, nipoti, genitori, ma alla fine quell’obiettivo passa in secondo piano. A prendere il sopravvento è la malìa della conoscenza.

Negli ultimi venti/trent’anni che cosa è cambiato nel modo di raccontare il sé?

Fino, diciamo, alla prima decade del Terzo millennio c’era una generazione che aveva vissuto le esperienze politiche collettive e portava nella propria scrittura personale queste contingenze di carattere storico. Insomma, è stato vero che il privato era politico. Nelle autobiografie più contemporanee, invece, la Storia collettiva si fa da parte, emergono i dati legati all’impegno con il volontariato, l’incontro con il malessere di certe categorie sociali, ma prevale la propria vicenda privata, intimista, introspettiva che comunque aiuta ad acquisire una maggiore consapevolezza di sé anche all’interno della cultura del tempo.

Ha potuto registrare anche un mutamento nel modo di vivere i sentimenti?

Felicità, pentimenti e rammarichi fino a fine ‘900 erano strettamente legati al collettivo e riferivano dolore nell’ammettere il fallimento dell’impegno sociale e politico. Oggi non c’è neppure una nostalgia per la mancanza di un impegno in tal senso. I grandi protagonisti odierni sono i tradimenti subiti ed esercitati, la famiglia, la vita professionale e i nuovi interessi come camminare, meditare. E il silenzio.

A proposito: dieci anni fa Duccio Demetrio ha dedicato un’Accademia proprio al silenzio, che è compagno imprescindibile della scrittura. È lei che lo genera fuori e dentro sé, creando tutto intorno una bolla feconda e fertile che favorisce un’educazione interiore e personale. E forse, il silenzio fertile generato dalla scrittura, oggi potrebbe perfino rivelarsi una forma di lotta. E provocazione.